Pausa-pranzo fra diritti e obblighi
Non molto tempo fa, ci sono state numerose polemiche sulle dichiarazioni del ministro dell'Attuazione del Programma del Governo, che, in pratica, ha sostenuto che la pausa pranzo non dovrebbe essere considerata un obbligo, bensì un diritto da garantire a chi lavora, ritenendo possibile evitare di farla a tutti i costi (come nel suo caso portato ad esempio). Come spesso succede nel nostro Paese, questo tema, che sicuramente non è tra le priorità sociali, ma indubbiamente riguarda la qualità della vita di chi lavora, ha scatenato la solita ridda furiosa tra favorevoli e contrari alle dichiarazioni del ministro, senza considerare alcuni fatti.
Va detto con franchezza che la realtà è molto più semplice, senza che questo abbia significato di una presa di posizione politica di alcun genere ma sia solo manifestazione di buonsenso. Infatti, già dal 2003, con il D.Lgs. N° 66, in Italia non esiste più un obbligo assoluto di fare la pausa pranzo, nè le Aziende possono imporre indiscriminatamente questo obbligo ai lavoratori.
Quindi, proprio in conseguenza delle garanzie ai lavoratori di diritti comuni all'interno dell'Unione Europea, questo obbligo è stabilito solo dove i singoli contratti collettivi di lavoro di categoria lo prevedono. Negli altri casi, se il lavoratore ritiene di non aver bisogno di un pranzo completo, che duri ad esempio mezz'ora o più, si garantiscono almeno 10 minuti di pausa (se l'orario di lavoro supera le 6 ore, sufficienti ad esempio per mangiare un panino portato magari da casa), salvo diverse condizioni comunque concordate con i lavoratori. Così facendo sia il lavoratore sia l'azienda possono tranquillamente far fronte ai reciproci obblighi senza che ci siano lamentele di sorta o diritti lesi.
Purtroppo però, siamo il Paese dove si fanno le leggi (troppe... forse non tutte necessarie, ma è solo il mio parere) e spesso, come in questo caso, non le si applicano: qui addirittura dal 2003...! Infatti spero che il Ministero in questione, per la competenza dello staff di cui si avvale, non ignori che ad esempio siano proprio numerose Amministrazioni pubbliche a dare disposizioni ancora oggi perchè i dipendenti facciano per forza una pausa pranzo (anche se non è collegata ad una interruzione del servizio o prevista come obbligatoria dal contratto di lavoro).
Non solo, ma nel caso il dipendente od il dirigente ragionevolmente ritenga di non aver bisogno di fare un pranzo, magari anche per meglio organizzare la sua giornata lavorativa e personale, si vede decurtato un "forfait" di tempo dal cartellino orario (in pratica non gli viene pagato il tempo in cui invece rimane al lavoro) in ossequio a circolari sull'orario di lavoro, che dall'entrata del D.Lgs. N° 66/2003, non hanno, evidentemente, più valore. Non solo ma deve anche giustificare all'Azienda (sic!) perché non ha pranzato, essendo altrimenti soggetto a possibili punizioni.
In questo ultimo caso, quindi, al lavoratore va la kafkiana beffa di vedersi documentare una pausa pranzo inesistente, anche quando magari sta tranquillamente lavorando e talvolta nemmeno per sua scelta, magari perché lo richiedono le circostanze; nel caso dei dirigenti, addirittura, senza nemmeno vedersi retribuire lo straordinario lavorativo.
La conclusione in questo caso è che sarebbe utile una ricognizione ampia e chiara, da chi senta di averne il mandato, sull'effettiva applicazione del D.Lgs n° 66/2003 nel nostro Paese, che permetterebbe già da ora di rendere il ricorso effettivo ed utile alla pausa pranzo più congeniale ai nostri tempi, con buona pace di inutili polemiche e dando quantomeno credito al ministro di aver sollevato una questione più che fondata, diversa dai soliti attacchi al fannullone di turno.
Non si tratta solo di essere più o meno liberali, né tantomeno di privare del diritto sacrosanto di pranzare (quando il lavoratore lo ritiene) ma anche di ragionare meglio sull'organizzazione del lavoro e sul controllo reale delle presenze in servizio (che senso ha infatti far figurare sul cartellino per "forza" un lavoratore in pausa pranzo, anche quando non lo è?), visto che comunque all'azienda va un evidente vantaggio dallo spostamento dell'orario di uscita del lavoratore, soprattutto dove ci sono organizzazioni per turni o dove si deve garantire un orario al pubblico più o meno lungo.
Infine, obbligare alla pausa pranzo, in ogni caso, induce comportomenti scorretti sugli stili di vita utili per prevenire le malattie legate alla sedentarietà ed all'obesità, visto che diventa più difficile in questo caso, sia evitare di mangiare quando non necessario (talvolta, anche per buona educazione: come si fa a dire al collega che non si intende pranzare con lui, se ci invita?), sia avere tempo più utile da dedicare ad altre attività od alla famiglia.
Ripeto, per evitare che ci siano polemiche o incomprensioni: il diritto alla pausa pranzo rimane abbondantemente garantito dalla legge, lo considero intangibile né penso vada ridimensionato per chi ne ha bisogno, tuttavia diamo garanzia e rispetto anche a quelli che non vogliono farla... (ma sul serio!) e senza che siano costretti a giustificarsi inutilmente.
Lettera firmata
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