Ospedale di Esine: non si tratta così un paziente 16enne

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Sono la mamma di un ragazzo di 16 anni, nato con una disabilità fisica che stiamo curando fin dalla nascita. Mio figlio è nato con una gamba più corta e, fin dai quattro mesi di vita, è stato sottoposto a innumerevoli interventi chirurgici di allungamento del tendine, posizionamento del piede equino e primo allungamento della tibia di sette centimetri. Interventi che sono stati effettuati all’ospedale «Rizzoli» di Bologna. Dopo ogni operazione, al rientro in Valle Camonica, ci recavamo agli ambulatori dell’Asl di Breno dove abbiamo sempre trovato personale medico e amministrativo molto gentile e disponibile: portando un fissatore esterno (Ilizarov), necessitava di medicazioni settimanali per evitare il diffondersi di infezioni e siamo stati seguiti con professionalità e umanità. A maggio 2018, è stato sottoposto all’ultimo intervento e, al rientro, sono cominciati i problemi. L’ambulatorio di Breno è stato chiuso e, quando abbiamo chiesto spiegazioni, ci è stato detto che il servizio di medicazione veniva garantito solo a domicilio ma per pazienti allettati: per gli altri casi, era necessario rivolgersi all’ospedale di Esine. Con la ricetta del medico di base ci presentiamo all’ambulatorio di Chirurgia per la medicazione: medico e infermiere guardano il ragazzo come fosse un marziano e si rifiutano di effettuare la prestazione indirizzandoci alla sala gessi del reparto di Ortopedia. Qui, un medico gentile e professionale effettua la medicazione e lasciamo l’ospedale con l’impegnativa per le medicazioni dei prossimi sei mesi. Domenica 24 giugno, dopo tre giorni di dolore persistente alla gamba, ho chiamato il «Rizzoli» di Bologna dove mi consigliano un antibiotico urgente con invito a rivolgermi al reparto di Ortopedia dell’ospedale più vicino. Chiamo a Esine e mi rimandano al Pronto Soccorso: qui, dopo due ore di attesa, le infermiere si rifiutano di medicarlo affermando che, visto il fissatore, è necessaria la presenza di un ortopedico. Finalmente arriva il nostro turno: torna in sala gessi e incontra una dottoressa che mi fa capire, neanche troppo velatamente, che non era il caso di disturbare la domenica per una medicazione. Le spiego dell’antibiotico e mi risponde che «secondo le linee guida del nostro protocollo l’antibiotico non serve». Preferisco sorvolare sul «tatto» usato in fase di medicazione, con il ragazzo che supplicava alla dottoressa di essere più delicata. Lei, di tutta risposta, ci ha spiegato che avremmo potuto medicarlo a casa evitando di «intasare» (ha usato questo termine) l’ospedale ogni tre giorni. Siamo tornati a casa alle 19.30 e, appena salito in auto, il ragazzo è scoppiato in lacrime: non solo per il dolore, ma per il trattamento ricevuto. Questo, più di tutto, mi ha ferito in fondo al cuore. Pagando un’infermiera che ha consultato i medici del «Rizzoli», mio figlio ha potuto ricevere le medicazioni necessarie e cominciando la terapia antibiotica l’infiammazione si sta pian piano dissolvendo. A Lei, caro direttore, che è donna e mamma, lascio trarre le dovute conclusioni. Non siamo genitori apprensivi e non avrei mai pensato di dover arrivare a scrivere al giornale (a cui siamo abbonati da vecchia data), per raccontare questa disavventura: ma non potevo tacere oltre.

// Lettera firmata Non è necessario, cara signora, essere donna e mamma per restare indignati davanti ad un racconto come il suo. Ha fatto bene a rendere pubblico il suo sfogo. Chissà, forse qualcuno avrà il coraggio di chiedere scusa a lei e soprattutto a suo figlio. (n.v.)

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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