Odissea per diventare medico per poi dover emigrare all’estero

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Gentile ministro della Salute, Giulia Grillo, sono la mamma di un medico di 35 anni e voglio presentarle la, per me, triste situazione di mio figlio. Mio figlio è emigrato in Francia perché, pur essendosi laureato in Medicina e chirurgia col massimo dei voti a 25 anni nel 2008 e poi specializzato in Medicina Interna a 30 e quindi aver dato undici anni agli studi medici (mai bocciato ad alcun esame) e aver passato la parte migliore della sua gioventù sui libri, nelle corsie degli ospedali, nei laboratori, nei day-hospital, fra l’altro sostenendo, durante la specializzazione, pesanti turni di guardia non pagati e quasi sempre nell’impossibilità di fruire di un adeguato turno di riposo alla fine di una notte - 12 ore - di attività ininterrotta, non è riuscito a inserirsi nel mondo del lavoro qui in Italia. Nel 2014, quando ha concluso la scuola di specializzazione nella stessa università in cui si era laureato ottenendo il relativo diploma, ai rarissimi concorsi banditi si presentavano in 100 per un solo posto (erano iniziati gli anni del blocco del turn over, dei piani di rientro, dei concorsi bloccati, delle forbici affilatissime e impietose pronte a tagliare i posti di lavoro, i sogni e le legittime aspirazioni dei nostri giovani intellettualmente pronti, con le competenze acquisite, ad offrire la loro opera) e lui non si è mai collocato in posizione utile. A quel punto ha deciso di riprendere lo studio del francese (alle scuole medie aveva frequentato una sezione bilingue francese -inglese) e dopo aver sostenuto con esito positivo degli esami ottenendo una adeguata certificazione, ha trovato da lavorare in Francia in un’associazione che si occupa di medicina del lavoro come Médecine Collaborateur (lavora a tempo pieno e con piene responsabilità) e, in alternanza, sta seguendo un percorso universitario (Diploma Inter Universitario) sostenendo gli stessi esami degli specializzandi interni in medicina del lavoro. È ormai al quarto anno e fra pochi mesi discuterà la tesi per ottenere questa seconda specializzazione. Inoltre partecipa a convegni nella capitale e in altre città, fa parte di commissioni all’interno dell’azienda per cui lavora, coordina il gruppo di lavoro territoriale. La svolta positiva che ha avuto la carriera di mio figlio mi ha confermato che l’Italia forma in modo eccellente profili di alto valore e che i docenti delle nostre scuole pubbliche svolgono egregiamente la loro opera. Purtroppo, però, l’Italia questi giovani di alto profilo se li lascia sfuggire. Io comunque non mi rassegno all’idea di averlo lontano né all’idea di veder crescere eventuali nipotini lontani dai nonni e che parlano un’altra lingua, perciò spero tantissimo di vederlo rientrare e di invecchiare avendo mio figlio in Italia, non attaccato alle gonne della mamma, ma in una qualsiasi regione del nostro Paese dove poter professare parlando la sua lingua, dopo tanti studi e sacrifici. Ho tanto sentito parlare e ho letto della mancanza di medici di base in Italia e speravo che la specialità di Medicina Interna che mio figlio ha conseguito potesse essere utilizzata per inserirsi e lavorare nel nostro Paese(a lui non dispiacerebbe, perché la medicina interna è ancora nel suo «cuore»). Ma in Italia, mi ha spiegato mio figlio, c’è una rigidità che non si ravvisa in altri posti d’Europa tra cui la stessa Francia, ma anche in Svizzera Paese nel quale lui ha ottenuto presso il MEBEKO, l’ufficio che controlla e valida i diplomi, per il suo titolo di specializzazione l’equivalenza con la specializzazione svizzera di Medicina interna generale che dà la possibilità di lavorare in ospedale come internista, e anche, in alternativa, come medico di base o di famiglia. Considerati i problemi che certe regioni spiegano di avere nel trovare medici di famiglia non è fuori luogo non consentire a chi ha la specializzazione in Medicina Interna di diventare medico di base? Fino alla metà degli anni ’90 per svolgere l’attività di medico di famiglia «bastavano» la laurea e il tirocinio e le cose funzionavano! Oggi nel 2018 è richiesta ai lavoratori sempre più polivalenza e flessibilità per acquisire nuove competenze per stare al passo con il mercato del lavoro col fatto che i lavori sono sempre più precari e, se un tipo di mestiere non tira più (per esempio la medicina interna ospedaliera, meno richiesta di altre specialità) sarebbe giusto, secondo me, dare la possibilità alle persone di riproporsi-riimpiegarsi secondo le disponibilità del «mercato del lavoro», se necessario anche facendo delle passerelle professionali. Ma non i 3 anni di Mmg per uno che ne ha già impiegati 5 per formarsi in un’altra specialità. Perché questa possibilità è incompatibile col formare una famiglia. Perché non creare invece una formazione breve (di 3-6 mesi?) per colmare eventuali conoscenze mancanti agli specialisti, conoscenze che potrebbero essere utili per lavorare sul territorio? Stiamo parlando di specialisti di medicina interna già formati, con alle spalle ore e ore di corsia e guardie in ospedali universitari ultra-frequentati da pazienti di ogni tipo, 11 anni di formazione fra università e specialità.

// Lettera firmata

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