Noi, «fuori taglia» umiliati, offesi e non considerati

Vi scrivo per esprimere il mio personale disgusto, oltre che una profonda amarezza, verso una situazione che, purtroppo, continua a ripetersi con sconcertante regolarità e che nulla ha a che vedere con la tanto decantata «inclusività» di cui oggi si parla ovunque. Condivido un’esperienza personale che, purtroppo, rappresenta la quotidianità di molte persone obese come me e che contrasta apertamente con la retorica dell’inclusività e della gentilezza che, negli ultimi anni, riempie campagne pubblicitarie, manifesti, talk show e comunicati istituzionali. La sera del primo dicembre, in pieno Black Friday, un periodo in cui lo shopping viene presentato come un’esperienza democratica, aperta, conveniente «per tutti», pubblicità martellanti, negozi illuminati come teatri, personale schierato per accogliere clienti di ogni genere, mi sono recata in un negozio enorme, un multimarca di firme prestigiose, migliaia di metri quadrati di superficie, corridoi di espositori ordinati al millimetro. Non stavo cercando un capo economico né stavo facendo «shopping compulsivo da sconti»: volevo semplicemente un paio di pantaloni eleganti da indossare a un evento importante. Sapevo esattamente cosa cercavo, e soprattutto ero consapevole della mia taglia. Prima ancora che potessi mostrare ciò che cercavo, la commessa ha affermato che in tutto il negozio non ci sarebbe stato nulla della mia taglia. Non un «vediamo», non un «proviamo a cercare», non un «controlliamo insieme»: solo una sentenza definitiva, pronunciata con fredda sicurezza da chi, evidentemente, riteneva superfluo anche solo tentare. Solo dopo aver insistito e indicato un modello che mi piaceva, ha acconsentito a farmelo provare. Il capo risultava effettivamente stretto in vita, e questa è stata per lei la conferma definitiva per ribadire, con tono quasi rassegnato, che lì non c’era «niente per me». Non «al momento», non «in questo modello», non «in questa marca»: niente. E quando ho chiesto come fosse possibile che in un negozio tanto grande non esistesse nemmeno un solo capo adatto a me, la risposta è stata un semplice, secco, imbarazzante «no». Sono uscita dal negozio non tanto per la mancata vendita, quanto per la sensazione di essere stata esclusa in partenza. Non valutata come cliente, non considerata come persona, ma ridotta a un numero, una forma, un ingombro. E il punto è che questa situazione non è un’eccezione. È la normalità. Cambiano i negozi, cambiano i marchi, cambiano i volti delle commesse, ma l’atteggiamento è sempre lo stesso: le persone con corpi non conformi vengono ignorate, giudicate, scoraggiate, talvolta perfino umiliate. In un’epoca in cui la parola «inclusività» dovrebbe tradursi in opportunità reali, in accesso, in dignità per tutti, la realtà è ben diversa. Le grandi catene sbandierano campagne «body positive», ma in negozio non offrono nemmeno una taglia in più. Le pubblicità mostrano la diversità, ma gli scaffali continuano a essere progettati solo per una parte ristretta della popolazione. Mi chiedo se sarà mai possibile che una persona obesa possa entrare in un negozio, essere accolta senza pregiudizi, poter provare dei vestiti e magari uscire con qualcosa che le stia bene. La parola «inclusività» potrà mai smettere di essere un claim pubblicitario e diventare finalmente un fatto? Non si può più accettare che la discriminazione venga trattata come un dettaglio marginale o come un fastidio da ignorare. È tempo di parlare apertamente di ciò che accade ogni giorno, e soprattutto è tempo che gli imprenditori - grandi marchi e piccole realtà locali - si diano finalmente una mossa. Che inizino a considerare tutti i corpi, tutte le persone, e non solo quelle che rientrano nei canoni imposti dal mercato. Vi ringrazio per l’attenzione e spero che questa mia testimonianza possa contribuire ad aprire un confronto serio su un tema che riguarda moltissime persone, ma che ancora oggi viene trattato come un tabù.
Susanna FantinoBrescia
Cara Susanna, la sua speranza è la nostra. E se la tentazione è risponderle elencando i limiti del concetto di «inclusività» (parola che non ci piace, poiché pretende un «dentro» e un «fuori», come una scatola) o addentrandoci nell’analisi critica dei canoni estetici imposti dall’attuale società, preferiamo fermarci un passo prima, tralasciando per una volta la teoria, badando invece alla persona, come se l’avessimo qua, davanti agli occhi, chiedendole scusa a nome di quella commessa. Che se per cambiare una sensibilità occorrono anni, a volte intere generazioni, per essere garbati e cogliere nell’altro l’umano basta un poco di buona volontà e una dose davvero minima di empatia. (g.bar.)
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