Noi e il Dio umile di Rembrandt nel «figliol prodigo»

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Un mio vecchio scolaro mi ha regalato per Pasqua una bella riproduzione del quadro di Rembrandt «Il ritorno del figliol prodigo». Il pittore lo dipinse come simbolo del suo ritorno alla casa del Padre dopo una vita travagliata e dissoluta. Il pianto, il dolore, il rimorso riconducono i passi dell’artista alle braccia sempre aperte dell’attesa divina. Dice Van Gogh ammirando il dipinto «Un uomo deve essere morto mille volte e aver pianto molte lacrime per aver dipinto un ritratto di Dio in tale umiltà». Il famosissimo quadro è custodito ancora oggi nel Museo Ermitage di San Pietroburgo ma la riproduzione continua a fare il giro del mondo: nelle cattedrali e nelle pievi, nelle sale ecumeniche e nelle case, nelle collezioni private e nelle tesi universitarie. In questo anno santo del Giubileo della misericordia, voluto da papa Francesco, l’immagine è esposta anche nella chiesa del mio paese, accanto all’altare maggiore, alta e solenne a ricordarmi la bontà di Dio. I miei occhi sono all’altezza del figlio più giovane come se il pittore volesse suggerirmi una identificazione tra l’immagine e la realtà. So benissimo di essermi sempre immedesimata in questo personaggio ravveduto e affranto che torna dal padre per l’abbraccio del perdono e così deve essere stato anche per Rembrandt, figlio pentito, vestito di logori stracci, inginocchiato, con la borsa vuota e il piede scalzo, tutto il corpo in preghiera. «Mangiare le ghiande» per non morire di fame è tuttora testimonianza estrema della miseria e ben lo esprime la frase del nostro dialetto «Eser en giande», ovverosia stare tanto male. Non mi sono mai sentita figlio maggiore, figlio perduto pur rimanendo a casa, ma una consapevolezza nuova fa ritrovare me stessa anche nel suo lamento e mi incoraggia nel difficile cammino del perdono. Mi incanto a guardare le mani del Padre. Sono le mani di Dio, ma sono anche le mani dei miei nonni, dei miei genitori, dei miei maestri e dei tanti amici che mi vogliono bene. Sono le mani dei medici che mi hanno guarito e delle suore che hanno illuminato i miei sentieri. Le due mani sono diverse. La mano sinistra è forte e grande, la destra è raffinata e gentile: una mano di donna. Mi si dischiude un nuovo mondo di significati. Il padre è anche dolcissima madre. Lui sorregge, lei coccola. Lui rafforza, lei consola. Che meraviglia! Nel sacro dipinto c’è anche un altro importante particolare che mi colpisce e commuove: sono gli occhi del Padre, occhi di cieco. Il padre ha consumato gli occhi nel guardare l’orizzonte in attesa del figlio, la madre sempre sull’uscio, sempre alla finestra con la lampada accesa per vedere se, dall’angolo in fondo alla via, apparisse finalmente il suo «ragazzo» per corrergli incontro con le ali ai piedi. Ringrazio il mio scolaro per il quadretto che adesso sta sul mio pianoforte e mi regala felicità e stupore in un caldo susseguirsi di emozioni e di passione. È una campana di Pasqua che mi ripete che amare come il Padre è sicuramente difficile, ma è bellissimo lasciarsi amare da Lui che dall’Eternità ci ha disegnati sulla palma delle Sue mani.

// Elena Alberti Nulli
Monticelli Brusati

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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