Morire e rinascere ogni giorno: questo è fantastico
Caro collega, mi permetto di chiamarla così perché anch’io, come lei, ho un ospite indesiderato nel corpo, piuttosto fastidioso, che mi sta mettendo alla prova. La lettera che lei ha scritto il 23 marzo sul giornale mi ha veramente commosso; anch’io provo le medesime sensazioni. Ho subito diversi interventi a causa dell’ospite e mi hanno tolto parti del corpo che non sapevo nemmeno di avere, ma sono ancora qui. All’inizio è dura, soprattutto la notte, quando l’anima eterea dell’oscurità cala i suoi veli sulla città e su di noi che, come ombre randagie, se ne stanno lì dietro il vetro di una finestra ad osservare le vite degli altri, con gli occhi pieni di lacrime, soli, senza farsi vedere, consapevoli che anche i nostri cari stanno piangendo soli e senza farsi vedere come se ci fosse un tacito accordo per non soffrire troppo. Ma poi per chissà quale fenomeno naturale o divino si diventa coraggiosi e si affronta il percorso a testa alta. Ed è proprio in un ospedale, come diceva Giorgio Gaber, dove la perdita è totale dove lo schifo che devi superare è quello di aiutare un uomo a vomitare dove non c’è più nessuna inibizione dal vomito al sudore alla defecazione, che salti il piano ed entri in un altro reparto dell’amore. Tra pazienti, infermieri, medici ed inservienti nasce una confidenza, una solidarietà e una complicità tale che vorresti avere anche nella vita «normale», e si fa di tutto per portarsi dentro quel mondo, una volta dimessi. Ricordo che una volta uscito dall’ospedale volevo abbracciare tutti i passanti e parlare con loro di qualsiasi cosa, ma ci si accorge presto che avere a che fare con «i sani» è tutto un altro paio di maniche. Per fortuna ci sono i nostri cari unico e vero rifugio dell’anima e del corpo. Devo dire però, caro collega, che l’ospite indesiderato mi ha insegnato due cose fondamentali: non avere più paura della paura e essere finalmente capace di vivere il presente, cosa che non è da tutti. Ricordo quando accompagnavo al parco il mio nipotino e ad un certo punto continuavo a guardare l’orologio innervosito e dicevo: «Dai Francesco che è ora di pranzo! Dai Francesco che è ora di cena!». Adesso quando sono al parco con il mio nipotino non me ne frega più niente dell’ora e me ne sto lì a guardarlo e sono felice, sì felice di essere vivo, cosa che, lo giuro, non darò mai più per scontata. Me ne sto lì sulla panchina con quel sorriso grosso come una casa perennemente stampato sul viso, espressione di uno stato di grazia che solo quelli come noi possono comprendere fino in fondo. Vede, caro collega, quelli come noi sono un po’ come Willie il coyote che cerca in tutti i modi di afferrare Beep Beep, consapevole che non ci riuscirà mai... si dà da fare però, costruisce marchingegni, razzi spaziali, arriva persino sulla luna ma alla fine è destinato a cadere in un precipizio per poi rialzarsi e ricominciare tutto daccapo. Vede, amico mio, quelli come noi sono destinati a nascere e morire ogni giorno e questo, mi creda, è fantastico.
// F. C.San Paolo
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