Monica, sorridente. Dal male portata via troppo presto

Varco la soglia del day hospital oncologico, di buon mattino e Monica, seduta sulla sedia, guardinga, con i grandi occhi verdi da gatta ed un sorriso aperto, si assicura che sia io a praticarle il prelievo di sangue. Sono entrata nelle sue grazie una mattina, quando per una trasfusione di sangue mi sono cimentata nella ricerca, quasi impossibile, di una vena, dopo vari tentativi falliti. Dai lunghi anni trascorsi in ambito cardiologico interventistico ho acquisito una certa destrezza per questa manovra. Ho preso una sedia e con calma, ho iniziato a perlustrare il braccio. Ci vuole pazienza, tatto, intuito e una certa delicatezza, oltre alla disponibilità nell’ascoltare i suggerimenti dei pazienti, che conoscono meglio di noi il loro corpo. Tra noi vi è una simpatia reciproca, Monica è una persona semplice, diretta ed ironica, lavora come cuoca in un asilo della città, le piace il suo lavoro per il legame creatosi con molte generazioni di bambini. Per due anni la vedo da sola, fino alla sera in cui la dottoressa le comunica il sospetto di una progressione della malattia e la invita a condividere il percorso con un famigliare. Ho impressa l’immagine di lei che lascia il day hospital quel tardo pomeriggio d’autunno, incamminandosi lungo il corridoio, fuori è già buio, capisco quale possa essere il suo stato d’animo. La rivedo il giorno dopo e mi confida di essere uscita a cena con il compagno, per non pensarci. Da quel giorno compare la madre, una anziana piccola e minuta. Da uno sguardo furtivo si comprende per quale motivo sia stata risparmiata fino ad allora, dalla sofferenza della figlia. Monica è sempre stata fiduciosa, non ha mai accennato alla possibilità di non farcela, due anni prima, in una visita ambulatoriale di routine chiese alla dottoressa: «Vero dottoressa che non muoio?». In quel frangente ci eravamo commossi ed inteneriti, io, la dottoressa e lo specializzando, per quella sua domanda un po’ ingenua, dettata dalla legittima paura. Mi ero fatta l’idea che l’evento potesse verificarsi, ma molti anni più tardi. Ci salutiamo prima del mio pensionamento, lei ha ricominciato la chemioterapia in vena e mi dispiace di non poter più esserle d’aiuto, credo sia anche lei un po’ dispiaciuta, anche se prevale la preoccupazione per se stessa. Apro il giornale e mi appare con il suo viso dolce e sorridente. Al di là dell’aspetto tecnico, essere infermiera significa incontrare un mondo costituito dalla persona malata, la sua vita sociale, gli affetti, le passioni, i problemi, la sua storia unica, che entra, senza intenzione, a far parte del nostro mondo e si trasforma nel ricordo di anime belle, che vorresti rivedere. Andarsene il giorno del compleanno è come un voler rimarcare che nel nostro inizio è già inscritta la nostra fine. A Monica, a Roberta, mia compagna di scuola, e alle donne accomunate dalla stessa subdola malattia.
Giuseppina ZaninelliEx Infermiera
Cara Giuseppina, a una lettera così, tanto densa di vita e di senso, l’unica risposta è il silenzio. Grazie per aver condiviso con noi questi pensieri. Sentiamo Monica così vicina, che sembra di conoscerla e che ci cammini accanto. (g. bar.)
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