Mia moglie malata e la solitudine che viviamo noi

Lettere al direttore
Lettere al direttore
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Una breve riflessione che vorrei condividere in merito alla giornata mondiale dell’Alzheimer. Sono purtroppo direttamente coinvolto in quanto mia moglie che ha settantacinque anni, da sette anni soffre di questa tremenda malattia. Più il tempo passa e più la malattia si aggrava. Da donna super attiva con vari impegni anche nel sociale è diventata una persona che non riconosce più nessuno, che ha bisogno di essere aiutata in qualsiasi situazione, perfino nel mangiare. In famiglia abbiamo deciso di tenerla a casa, ci vuole tanta tanta pazienza, ma soprattutto tanto affetto e tanto amore. Fortunatamente abbiamo trovato una bravissima signora che ci aiuta qualche ora al giorno portandoci un po’ di sollievo. Purtroppo fino ad ora la medicina è quasi impotente di fronte a questa, malattia, speriamo che in futuro anche per questi ammalati ci sia la possibilità di essere curati e magari di guarire, anche se penso che per questo ci vorrà ancora molto tempo. Come in ogni malattia ci sono i cosiddetti effetti collaterali, e il peggiore di questo effetto è la SOLITUDINE; scrivo la parola in maiuscolo perché ci si sente davvero soli, socialmente, comunitariamente soli, spariti quasi tutti gli amici e conoscenti anche se mi rendo conto che è molto difficile visitare e comunicare con una persona inconsapevolmente assente. Aveva ragione un amico medico che all’inizio di questo doloroso cammino mi aveva detto «ricordati che questa è la malattia di tutta la famiglia» ed è proprio così. Come famiglia viviamo proprio alla giornata sapendo con certezza che il domani sarà peggio dell’oggi.

Paolo

Caro Paolo, quelle lettere maiuscole non le correggiamo, le lasciamo così, comprendendo che per esser sopportata la solitudine necessiti di essere urlata, rinfacciata anche, ai molti che non la provano sulla loro pelle e magari si lamentano per vicende che al confronto impallidiscono. Le sue parole sono uno stiletto nella nostra costola, la descrizione cruda di una condizione che manda a gambe all’aria chi la affronta, oltre a distinguersi come incubo di ciascuno, se ci si pensa. Infatti la tentazione è quella di non badarci, di esorcizzarne il timore creando tra noi e chi ne soffre una barriera. Peccato che nella terra di mezzo ci siano appunto mariti, mogli, figli, parenti, che subiscono la stessa sorte, finendo per restare emarginati e ritrovandosi soli a portare il peso di tanta assenza. Un abbraccio allora, caro Paolo, e tanta stima. Per lei e per tutti coloro che vivono un’identica croce, dimostrando cosa significhi «amare» non a parole, bensì nella carne, per la vita. (g. bar.)

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