L'integrità e la discrezione del prof. Arduino
È di qualche tempo fa il primo anniversario della scomparsa del prof. Emilio Arduino, trascorso sotto il più completo silenzio da parte dei media e delle autorità locali, complici, oltre alla disattenzione di questi ultimi, anche il suo carattere ed il suo stile di vita schivo e riservato.
Eppure il personaggio era di sicuro spessore, certamente da iscriversi nello strettissimo novero dei virtuosi di cui la città può andar fiera. Fu per tanti anni colto ed apprezzato insegnante di lettere alle Magistrali «Veronica Gambara», amato dai suoi allievi per la sua laicità, per il suo disincanto, per il rigore morale e intellettuale, ma anche per la sua garbata e rara ironia.
Figlio d'arte, il suo babbo, Carlo, fu uno dei più noti e autorevoli insegnanti del liceo classico «Arnaldo» degli anni Trenta, ma da questa personalità severa e un po' ingombrante si staccò dopo l'8 settembre del 1943, quando, ventitreenne, contrariamente agli orientamenti di famiglia, decise, insieme al fratello Ico, di salire in montagna per aggregarsi alle file partigiane delle Fiamme Verdi valsabbine, Brigata Perlasca, delle cui vicende scrisse nell'immediato dopoguerra nell'ambito di un apprezzato libro, ormai quasi introvabile.
Lì mise al servizio dei suoi compagni la sua lucida razionalità, la quale gli permise di capire che lo schieramento delle forze in campo non consentiva ai ribelli - pochi e mal organizzati e meno ancora armati - uno scontro frontale; tanto che perfezionò la tattica del «mordi e fuggi»: colpire (la caserma, il convoglio) e sganciarsi dal luogo dell'agguato, così evitando di dare punti di riferimento al nemico.
Proprio l'ossequio a tale filosofia gli permise di eludere la cattura nel corso della grande retata effettuata dal Battaglione della Wehrmacht Brixen Gau nel '44 nei dintorni della Corna Blacca, in occasione della quale furono arrestati e poi fucilati Titta Secchi e altri partigiani; ebbene, Arduino, anziché asserragliarsi in postazioni fisse e fatalmente soccombere, scelse con pochi altri di aprirsi combattendo un varco verso la Val Camonica; per ivi riposizionarsi e, poi, passata la buriana, riprendere la guerriglia.
Finita la guerra e «liberato» il Paese non passò ad incassare i crediti che si era guadagnato con tanto coraggio e ideologica determinazione, omettendo di frequentare le liturgie resistenziali e, conseguentemente, di intraprendere una prevedibilmente luminosa carriera politica, per concentrarsi sul completamento degli studi e iniziare l'insegnamento a cui dedicò successivamente tutta la sua vita.
Sposò Franca, da cui non ebbe figli, ma che amò teneramente; fedele al principio mens sana in corpore sano, fece attività sportiva (corsa a piedi, ciclismo, sci) con lo stesso rigore - e performances - con cui condusse il resto della sua esistenza.
Nel maggio del 1978 fu chiamato a far parte della Corte di Assise di Brescia, onerata dall'improbo compito di giudicare gli imputati della prima inchiesta sulla Strage di Piazza della Loggia.
Il suo passato di antifascista, di partigiano, l'essere uomo di sinistra, il sicuro carisma nei confronti degli altri giudici popolari avevano ingenerato più di qualche timore nell'ambito della difesa, preoccupata che tale back-ground potesse far declinare negativamente le sorti degli sventurati alla sbarra, alcuni dei quali giovani di destra, atteso anche il clima colpevolista dell'epoca.
In realtà, l'uomo da tempo aveva superato gli steccati dell'ideologia per badare esclusivamente all'essenza delle cose e delle persone; si appassionò a quelle carte e a quel dibattimento e avvertì subito l'abnormità di quella balzana ipotesi di accusa ed ebbe una parte fondamentale, un anno e mezzo dopo l'inizio di quel drammatico processo, nel proscioglimento di sette dei nove imputati, peraltro non riuscendo a darsi pace per non aver saputo trascinare la maggioranza dei giudici togati e di popolo verso l'assoluzione anche di Ermanno Buzzi e di Angiolino Papa (i quali avrebbero subito ulteriore restrizione, prima di andare incontro alla morte violenta il primo ed alla scarcerazione in appello il secondo).
La parentesi giudiziale ci fece incontrare ed ebbi il privilegio di frequentarlo dopo il processo, grazie anche alla colleganza di Emilio con mia madre, anch'essa docente al «Gambara»: constatai subito quelle qualità, ammirate dai suoi studenti, di cui s'è detto prima, in testa alle quali spiccavano l'integrità morale e la discrezione: virtù ormai estinte in questi tempi di millantatori, vanagloriosi e quaquaraqua.
Divenne dunque un mio personale punto di riferimento morale ed intellettuale; e mi dolgo, oggi, che la città abbia ignorato il suo luminoso, anche se silenzioso, passaggio da queste parti terrene, pur convinto che l'interessato non ne avrebbe sicuramente avuto a male, certo di aver fatto nel corso della sua vita quanto gli competeva, né più, né meno.
Arturo Gussago
Brescia
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