L’esperienza diretta al Pronto soccorso e il sorriso che non c’è

AA
M ercoledì 6 dicembre ho trascorso parte della giornata al Pronto soccorso del Civile. Una brutta caduta che mi ha causato un trauma cranico minore, senza altre conseguenze, ringraziando il cielo. Nelle dieci ore che ho vissuto al pronto soccorso ho potuto osservare. E riflettere. C’era un confine netto tra un’umanità che cercava di fare al meglio il proprio lavoro, da una parte, e un’umanità incapace di contenere la propria insoddisfazione, dall’altra. Perché, mi chiedo, è così difficile valicare il proprio giardino e pensare che magari esiste una sofferenza più urgente di cura della nostra? Perché è così difficile la pazienza, la fiducia, il rispetto? Nel lento passare delle ore ho potuto vedere le corse, la professionalità, la gentilezza e quella volontà di sdrammatizzare, dove possibile, con la leggerezza dell’ironia. Da una parte. La prepotenza e la maleducazione dall’altra. Abbiamo così tanto di cui lamentarci, perché non provare ad apprezzare quello che funziona? Perché non imparare l’arte della pazienza e della gentilezza, perché non imparare il sorriso che fa tanto bene a chi sta male e a chi quel male lo cura ?
M. A.
Gentile lettrice, l’esperienza del Pronto soccorso è tra le più logoranti per chi è costretto ad attraversarla in stato di coscienza: un tempo in cui si rimane in sospeso nell’attesa della diagnosi e della successiva cura, in cui nella persona si affollano tutti insieme dolore, tensione, paura e senso di fragilità. Un mix difficile da gestire sia per chi ne è portatore sia per chi deve assistere. Per questo sarebbe fondamentale che il passaggio dal Ps fosse strettamente limitato all’emergenza conclamata (ma qui si apre un capitolo vasto già affrontato dal nostro giornale più volte). Verrebbe da dire, con san Filippo Neri, «state buoni se potete», al Pronto soccorso. E al proposito - in un tempo avaro di sorrisi, donati e ricevuti, e non solo in corsia - mi viene in mente la frase di un confratello inglese di san Filippo Neri, Frederick Faber: «donare un sorriso rende felice il cuore, arricchisce chi lo riceve senza impoverire chi lo dona». Non è certo un’esortazione che si propone di rivoluzionare il mondo, ma che di sicuro può rivoluzionare il nostro modo di vedere e percepire il mondo. Sorridete, dunque, più che potete. (g.c.)
M. A.
Gentile lettrice, l’esperienza del Pronto soccorso è tra le più logoranti per chi è costretto ad attraversarla in stato di coscienza: un tempo in cui si rimane in sospeso nell’attesa della diagnosi e della successiva cura, in cui nella persona si affollano tutti insieme dolore, tensione, paura e senso di fragilità. Un mix difficile da gestire sia per chi ne è portatore sia per chi deve assistere. Per questo sarebbe fondamentale che il passaggio dal Ps fosse strettamente limitato all’emergenza conclamata (ma qui si apre un capitolo vasto già affrontato dal nostro giornale più volte). Verrebbe da dire, con san Filippo Neri, «state buoni se potete», al Pronto soccorso. E al proposito - in un tempo avaro di sorrisi, donati e ricevuti, e non solo in corsia - mi viene in mente la frase di un confratello inglese di san Filippo Neri, Frederick Faber: «donare un sorriso rende felice il cuore, arricchisce chi lo riceve senza impoverire chi lo dona». Non è certo un’esortazione che si propone di rivoluzionare il mondo, ma che di sicuro può rivoluzionare il nostro modo di vedere e percepire il mondo. Sorridete, dunque, più che potete. (g.c.)
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