Le scarpette rosse ci ricordano che non sappiamo amare

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Sono delle scarpette rosse e si trovano sul lungolago di Sale Marasino per 2,5 chilometri. Ricordano le vittime del femminicidio. Sono rosse. Rosse come il sangue delle violenze sulle donne. Ma rosse come il rossore che si stampa nell’animo di chi subisce: umiliazioni, derisioni, abusi, prepotenze. Anno di grazia 2018 ma sembra il medioevo linguistico se scorgete la volgarità che fuoriesce dall’uomo padrone, che ancora non ha compreso che un essere umano non appartiene che a sé stesso. Quante silenziose umiliazioni. Quante lacrime sparse passate e quante seguiranno nei giorni a venire. Nel bisbiglìo di una storia raccontata ad un’amica che non si deve sapere, ma tenere all’oscuro. Frammenti dell’anima che cercano spazio e luogo nel mondo silenzioso del dolore. Non siamo capaci di amare, ci limitiamo a vivere le passioni quando le incontriamo. Niente più. E viaggiamo con aggettivi possessivi: mio, tuo. La «mia» donna. Il «mio» uomo. La «mia» ragazza, il «mio» ragazzo. Quando poi la vita, con l’imprevedibilità del momento mette in discussione ciò che si riteneva permanente, ci crolla il mondo addosso. L’amore è offerta che nulla vuole in cambio se non quella riconoscenza che non è tintinnio breve del tempo che fu. Perché le storie muoiono come gli individui. E ciò è necessario perché se ne generino altre. Ma nel rispetto del dolore e del sentimento. Della vita degli altri e della nostra. Ed invece cosa devono udire le orecchie, se non le urla di due infanti che non sanno nemmeno rispettare quel che è stato del passato. Ma subito a rinfacciarsi tradimenti e meschinità nella polvere dei loro giorni. Ed i figli divenuti scudi con cui alzare il ricatto. Che pochezza. Che pena. L’uomo che si sente tradito e che alza le mani non è forse un poveretto rimasto ancora allo stadio degli impulsi come gli animali? A quando il passaggio nell’emozione e dall’emozione al sentimento? Bisognerebbe già alle scuole elementari introdurre una materia che si chiama: «Educazione sentimentale». Ci ricordano che i sentimenti non sono una dote naturale, ma s’imparano attraverso la cultura e l’educazione. Il rispetto dell’altro prevede che l’altro sia appunto, «altro» da noi. La condivisione non è appartenenza. L’amore si può trasformare nel tempo. Muta, come cambiamo anche noi. Le storie che finiscono sono solo l’inizio di altro. Ma la realtà sovente ci racconta di donne sfregiate dall’acido. Di donne picchiate fra le mura di casa, che in silenzio subiscono. Tacciono. Magari sotto lo sguardo di un figlio che si vuole proteggere. Basterebbe leggere un capolavoro di Goethe, «I dolori del giovane Werther» per capire che non necessariamente l’amore non ricambiato deve farci finire come il giovane Werther. Basterebbe navigare nell’infinita letteratura dove l’amore può anche essere visto e vissuto in mille modi. Insomma basterebbe imparare che anche l’amore si impara. E gli uomini la smettano di esibire quella ridicola veemenza virile che non solo è volgarità ma che non è altro che una maschera esibita nel gruppo. Per poi ridursi a finire nel ridicolo quando si viene lasciati; laddove l’unico strumento che viene preso in considerazione è la violenza: o verbale o materiale. E i maschietti esuberanti che bevono per togliersi il rossore di affrontare lo sguardo o la parola di una ragazza, evitino di apparire ciò che non sono. Perché nell’angolo della nostra intimità (e questo concerne adulti o ragazzi) l’unica cosa che occorre saper ascoltare è un cuore che batte. Che batte per qualcuno che ha saputo toccare i fili della nostra anima che sono sottili e invisibili. Le scarpe rosse ci stanno ad indicare proprio questo. Ecco perché occorre metterle in mostra: perché anche l’amore che viene sconfitto dalla violenza possa essere memoria.

// Angelo Briscioli
Capo di Ponte

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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