L’alpino rianimato durante l’Adunata di Piacenza
Correva il tempo dell’85ª Adunata in quel di Piacenza, è passata una sola settimana e già mi sembra così lontana. Quest’anno, a differenza degli altri, decido di partire la domenica mattina e farmi accompagnare da Francesca, la mia compagna, entusiasta di farle conoscere un piccolo pezzo del mondo degli Alpini. Dopo giorni di pioggia e maltempo, un sole splendente con aria tersa ci accompagnano attraverso la pianura Padana sin dalla mattinata rendendo l’atmosfera ancor più piacevole. Dopo pranzo decidiamo di avviarci verso l’ammassamento di Brescia per un saluto al gruppo del mio paese e per incontrare un amico alpino di Ghedi. Mano nella mano con la mia «bella» cominciamo a farci strada fra 10.000 alpini bresciani in attesa di partire per la sfilata. Attimi stupendi, una piacevole ironia strappa- sorrisi ci segue, ma non riusciamo a trovare né il gruppo di Collebeato né l’alpino Abramo. Intanto però il sole caldo comincia a farsi sentire e per diverse volte mi tolgo il cappello per tirar via il sudore che si forma sulla fascia in pelle nera del nostro cappello. Ogni volta in quelle piccole gocce ritrovo un concentrato di ricordi, di fatica, di caldo, di freddo, di amici, di quell’incredibile anno a Vipiteno. Cerco ancora con lo sguardo, ma l’unica cosa che vedo è una strana zona a forma circolare senza alpini, uno spazio vuoto in mezzo ad un sacco di gente, capisco che qualcosa non va, mi faccio spazio ed entro in quel cerchio. Disteso a terra un alpino non dà segni di vita. Non ci penso due volte, piombo su di lui, pare morto, non respira, non si muove, niente di niente, è in arresto cardiaco. Il ricordo è un po’ impreciso, l’adrenalina entra in circolo in una frazione di secondo, le lancette cominciano a girare all’impazzata. Sono 13 anni che svolgiamo attività di volontario sulle ambulanze ma a queste cose non ci si abitua mai. Apriamo la sua camicia, gli strappiamo la maglia, esponiamo il torace e cominciamo a rianimare secondo le procedure che ci hanno insegnato, 1.2.3.4.5... 30, mi tolgo la camicia, la camicia del mio gruppo quasi nuova, perché per pigrizia la porto solo una volta all’anno, gliel’appoggio sul viso, gli soffio aria nei polmoni, al corso da soccorritore dicono di farlo solamente con persone che si conoscono per evitare trasmissioni di eventuali patologie, ma in quel momento non ci penso, o meglio, ci penso e quell’alpino lo conosco, è uno di noi, uno di famiglia. Tutt’attorno gli alpini diligentemente e silenziosamente fanno spazio, è strano e lo percepisco subito..., non succede quasi mai durante i servizi per il 118, c’è sempre qualcosa che non va. Ma lì è diverso, lì tutto va come deve andare. Dopo qualche minuto arriva un vigile piacentino con il DAE (defibrillatore automatico), continuo a massaggiare, si applicano le piastre, gli alpini intorno stretti in silenzio, scende il sudore, sale l’apprensione, dalla massa appare Abramo, ecco finalmente ci siamo trovati, mai stato così provvidenziale. Con Abramo ci conosciamo per via del volontariato, lui infermiere del 118, noi soccorritori volontari in Croce Rossa, con gli anni ci si conosce, si diventa amici, ci si frequenta e ci si dà appuntamento alle adunate. Intanto il defibrillatore scarica impulsi elettrici una, due, tre, quattro volte. Forza Alpino non mollare! Dopo qualche altro minuto arriva l’automedica; presto aiuto ancora per quel poco che ora posso fare, poi mi faccio da parte. L’alpino ha ripreso a respirare. Viene caricato in ambulanza e via velocemente verso l’ospedale. Ci abbracciamo, ci applaudiamo, la tensione scende, l’emozione sale vertiginosamente, la preoccupazione è tanta. È plateale la gravità ma c’è speranza. Chiedo del gruppo di appartenenza, è di Roncadelle, solo qualche km da dove abito. Passa una settimana e passo dalla loro sede, chiedo informazioni dell’alpino colto da malore e con enorme sorpresa dicono che «è uscito, ora è a casa...». Incredibile. Una settimana fa era quasi morto e ora è a casa. Quell’alpino si chiama Gino, (Luigi) e il primo pensiero va ad un altro Gino… mio nonno. Reduce di Russia con la Divisione Pasubio nel lontano ’42. Purtroppo da qualche anno nonno Gino non c’è più, è andato avanti. Un pensiero fra i tanti mi torna alla mente, ricordo infatti che egli mi disse del suo dispiacere di non essere alpino, tutti i suoi amici alpini e lui invece fanteria... a suo tempo ne fece quasi una malattia, poi lo mandarono a combattere lungo le rive del Don e riuscì a tornare a casa durante la grande ritirata. L’alpino Gino, invece ce l’ha fatta. Anch’egli ha dimostrato di aver una bella pellaccia, di non mollare, e al telefono con la Franci ha dimostrato anche una grande simpatia e spirito. Ci rivedremo fra qualche giorno, per brindare con un calicino e per un forte abbraccio. Sono felicissimo. Volevo far conoscere alla mia compagna un piccolo pezzetto del nostro mondo, e ho ritrovato le mie origini, grazie agli Alpini ed al Volontariato.
Alberto Tira
Gruppo di Collebeato
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