La storia dell’Iveco è una sconfitta. Serve più politica

La notizia dell’acquisizione di Iveco Brescia da parte di un’azienda straniera, per quanto non del tutto inattesa, segna l’ennesimo capitolo amaro nella lunga e dolorosa parabola del nostro tessuto manifatturiero. Non si tratta solo di un cambio societario o di una decisione di mercato: è, in realtà, l’epilogo annunciato di una disattenzione strutturale che dura da decenni. La storia recente di Iveco a Brescia parla chiaro: già nel 2016 si affrontava una pesante ristrutturazione, con 850 esuberi su circa 2.000 dipendenti. Oggi, quell’azienda che ha dato tanto al nostro territorio - in termini di lavoro, competenze e identità - non è più italiana. Ma il caso Iveco non è un’eccezione: è il simbolo di un intero settore lasciato progressivamente indietro. Il manifatturiero, per decenni il motore del nostro Paese, non è più una priorità né per molti industriali, né per la politica. Si è preferito, spesso in silenzio, delocalizzare, esternalizzare, alleggerire. In nome della competitività globale, si sono accettati compromessi che hanno impoverito i territori e svuotato le fabbriche. E, mentre altri Paesi difendevano le proprie eccellenze produttive con piani industriali seri, in Italia ci si è accontentati di misure tampone, cassa integrazione e finanziamenti a pioggia, senza una visione di lungo termine. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: aziende storiche che passano di mano, filiere che si spezzano, competenze che si disperdono, e lavoratori che si ritrovano sempre più soli in un sistema che non li tutela. Oggi più che mai, servirebbe il coraggio di una politica industriale vera, fondata su sovranità produttiva, investimenti in innovazione e formazione, e rispetto per chi lavora. Continuare a ignorare il tema, o trattarlo come normale dinamica di mercato, significa prepararsi ad assistere - in silenzio - al prossimo addio.
Gianmario SiraniEx Rsu Fim-Cisl, ex componente del Consiglio nazionale Fim-Cisl
Caro Gianmario, che al nostro Paese manchi una seria politica industriale - e non già da ora, bensì da decenni - è certo («serio» è aggettivo che noi italiani pronunciamo facilmente, applicandolo poco e male). Sul resto, non avremmo scrupoli nell’accogliere benevolmente gli «investimenti in innovazione e formazione» da lei auspicati, mentre qualche dubbio ci verrebbe sulla «sovranità produttiva». Che è un bel concetto, rassicurante, salvo poi squagliarsi come neve al sole quando si passa dai buoni propositi alla concretezza dei fatti. In un mondo qual è il nostro, possiamo illuderci di costruirci un microsistema autarchico efficiente? Non crediamo proprio. Per questo «pensare europeo» è condizione necessaria, anche se non sufficiente. Soltanto un mercato ampio può infatti garantire all’industria di questo scorcio di millennio di prosperare, trainando con sé gli altri comparti. Il vero miracolo consiste allora nel fatto che, nonostante l’assenza di una politica seria, il tessuto produttivo del nostro Paese continua a reggere. Perdendo qualche pezzo pregiato, è vero - e moltissimo ci spiace - ma nel complesso continuando a sopravvivere e a svilupparsi. (g. bar.)
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