La scuola diventi il luogo dove si costruisce il futuro

Lettere al direttore
Lettere al direttore
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Con la conclusione dell’anno scolastico si chiude, per nostra figlia Alessia, un ciclo di tre anni nella scuola secondaria di primo grado. Un passaggio importante, che rappresenta per noi un tempo di bilanci, non solo familiari ma profondamente educativi. Premetto che nostra figlia presenta alcune difficoltà e necessita della presenza di un insegnante di sostegno. Tre anni fa, con piena convinzione, abbiamo scelto di iscriverla alla scuola del nostro Comune, situato nella Bassa Bresciana, dove risiediamo. Una scelta che ci è sembrata preziosa - e tutt’altro che scontata, oggi - per garantire una continuità territoriale e affettiva, in un contesto scolastico vicino, conosciuto e familiare. Una scelta controcorrente, rispetto alla crescente tendenza a spostarsi verso altri istituti comprensivi o scuole paritarie dei Comuni limitrofi, dopo la scuola primaria. L’abbiamo fatto con fiducia, credendo in una scuola pubblica capace di includere, sostenere e valorizzare ogni studente. Abbiamo sempre cercato di costruire intorno a nostra figlia, ormai da ben 11 anni, una rete virtuosa, avvalendoci della collaborazione e della competenza di figure professionali esterne alla scuola e sperando di trovare negli insegnanti quel tassello mancante di competenza per affrontare un percorso di condivisione comune, con lo scopo di raggiungere lo stesso obiettivo: accrescere le competenze e le autonomie di una ragazzina in cammino, con le sue difficoltà e i suoi talenti. Eppure, oggi ci troviamo a fare i conti con un senso di amarezza. Fatichiamo a individuare risultati realmente significativi. Perché i troppi «non risultati» accumulati nel tempo hanno finito per pesare, come una zavorra, sullo zaino delle competenze di nostra figlia. In questi tre anni, ogni nostro tentativo di collaborazione con il corpo docente è stato spesso vissuto come un’ingerenza. La richiesta di un confronto aperto, sincero e costruttivo è stata percepita come qualcosa di superfluo, non degno di approfondimenti. La convinzione, da parte di molti insegnanti, di aver sempre agito nel modo corretto ha reso difficile ogni possibilità di mettersi in discussione. Le criticità emerse - come la gestione disorganizzata della programmazione, delle verifiche e degli strumenti compensativi - sono state spesso giustificate o minimizzate. Un esempio su tutti: un semplice formulario di matematica, richiesto a gennaio, è stato consegnato solo quindici giorni prima dell’esame di Stato. Cinque mesi di attesa che, per chi ha delle difficoltà, possono pesare come un intero anno, tra spiegazioni poco convincenti e giustificazioni fragili. Va però riconosciuto che tra i docenti non è mai mancato un forte spirito di gruppo. Una coesione evidente, soprattutto nel sostenersi a vicenda per giustificare le proprie scelte e le proprie mancanze anche quando sarebbe stato necessario un confronto più critico e attento, minimizzando anche situazioni spiacevoli che avrebbero richiesto ben altra attenzione. E viene spontaneo pensare che, se lo stesso livello di energia fosse stato investito nella progettazione didattica e nel percorso educativo di nostra figlia, oggi potremmo parlare di una vera scuola inclusiva. Una «buona scuola», nel senso più autentico del termine. Ma ciò che abbiamo vissuto non è solo una questione di relazioni. È una questione sistemica. La nostra esperienza mette in luce una criticità più ampia del sistema scolastico: una scuola che troppo spesso paga lo scotto di un reclutamento degli insegnanti inadeguato, dove la preparazione pedagogica e didattica non è garantita né verificata in modo rigoroso, specie in un segmento scolastico - la secondaria di primo grado - in cui le fragilità degli adolescenti richiedono competenze elevate, umane prima ancora che disciplinari. Questa lettera non vuole essere una lamentela, ma una testimonianza. La testimonianza di una famiglia che ha scelto la scuola pubblica, che ha creduto nella possibilità di crescere «insieme» e che oggi prende atto, con dispiacere, di un’occasione mancata. Un’occasione mancata per nostra figlia, che avrebbe meritato molto di più da chi per tre anni ha assunto il ruolo di educatore, senza dimostrarne appieno la sostanza. Oggi si parla tanto di inclusione. È diventata parola d’ordine nei documenti ufficiali, nei progetti, nei convegni. Ma la realtà, troppo spesso, racconta altro. Inclusione non è una dichiarazione di intenti. È una responsabilità quotidiana. E per realizzarla servono competenze concrete, aggiornate, ma soprattutto serve la volontà autentica di mettersi in gioco, di ascoltare, di collaborare, di riconoscere i propri limiti e superarli. E quando queste basi mancano - come purtroppo è accaduto nel nostro caso - la parola «inclusione» si svuota di senso, diventa una bandiera senza valore. La scuola può - e deve - essere il luogo o in cui si costruisce il futuro. Ma perché questo accada davvero, non bastano le parole: servono persone competenti, motivate e consapevoli della responsabilità educativa che hanno nelle mani. Perché dietro ogni occasione mancata, c’è un alunno. C’è una storia non ascoltata, dei bisogni ignorati, un potenziale lasciato indietro. C’è un futuro che avrebbe potuto essere diverso. E non dobbiamo dimenticare che nelle aule scolastiche si sfiora - ogni giorno - il futuro di una nazione. È tra i banchi che si creano opportunità o si distruggono. E ogni volta che manca la competenza, l’ascolto o la volontà di fare davvero inclusione, non è solo un singolo studente a perdere qualcosa: perdiamo tutti.

Lettera firmata

Carissima, ha ragione: perdiamo tutti. Bene ricordarlo, mancando pochi giorni all’inizio dell’anno scolastico, affinché davvero il futuro «possa essere diverso». In meglio, aggiungiamo. P.S. Leggendo le sue parole ci è davvero spiaciuto per sua figlia, ma - dobbiamo essere sinceri - abbiamo considerato altresì la fortuna di appartenere a una famiglia qual è la vostra, dotata di sensibilità e pure degli strumenti razionali ed emotivi per supplire alle carenze altrui, sostenendola. La pena maggiore è invece per coloro che un simile contesto non ce l’hanno e, se cede il pilastro della scuola, le buone occasioni di crescita si riducono a dismisura. (g. bar.)

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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