La ricchezza internazionale del dialetto
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Alcuni mesi fa è circolato sui media un dato Istat secondo il quale il dialetto in genere, a livello nazionale, è ormai parlato anche in ambito famigliare solo dal 9% della popolazione. «Nonostante questo», hanno aggiunto i media citando sempre l’Istat, «la conoscenza delle lingue straniere resta poco diffusa tra la popolazione italiana». In realtà il dato sul dialetto era già noto da tempo: si tratta di una vecchia notizia riproposta come nuova. Inoltre i cosiddetti dialetti non sono altro che lingue parlate a livello locale; parlare un dialetto non significa affatto portarsi dietro qualche svantaggio di sorta nell’apprendimento dell’inglese o di altre lingue straniere. Succede spesso che i media ripropongano notizie vecchie confuse con informazioni errate; succede anche su temi ben più gravi di questo, tanto che ormai sarebbe lecito per l’opinione pubblica chiedere conto di tale condotta. Tornando tuttavia a noi, i dialetti in generale ed il nostro in particolare non sono stati sempre e solo l’espressione di un mondo limitato e chiuso in se stesso come si usa pensare. Il nostro dialetto è ormai una lingua pressoché morta, ma è stata la madrelingua per generazioni di persone e vorrei porne in evidenza alcuni aspetti che forse ai più sfuggono. Appartengo al 9% delle persone che lo parlano in casa; allo stesso tempo, guarda caso, parlo fluentemente alcune lingue straniere. Mi sono spesso servito delle strutture del dialetto bresciano per meglio capire e far mie strutture simili che si ritrovano in altre lingue europee. Nel dialetto bresciano troviamo ad esempio i phrasal verbs, i temuti verbi separabili dell’inglese e del tedesco (to build up a house, ein Haus auf-bauen, fa sö na caså; to go down (along) the road, die Strasse entlang-gehen, nà so drè à la stradå etc.). I parlanti italiani, approcciando le diverse forme di esprimere un obbligo in inglese, tendono ad optare troppo spesso per il verbo modale «must» percepito come analogo anche nella forma all’italiano «dovere». L’altra forma disponibile, che a molti sembra incomprensibile, è quella costruita con il verbo to have: I have to do it/ you have to go etc. Tuttavia scegliere sempre e solo must, in inglese, è in molti casi un errore. Have to non è così astrusa come sembra: in bresciano si rende allo stesso modo, così che chi lo parla ha a disposizione una struttura che usa quotidianamente: I have to go; Go de nà. Il bresciano ha partecipato per secoli all’evoluzione delle lingue europee occidentali. Attorno al XVIII secolo, in diverse aree dell’Europa occidentale anche parlanti lingue di famiglie diverse, è caduta in disuso la forma corrispondente al passato remoto, gradualmente sostituita dal passato prossimo, divenuto la forma tout court per descrivere il passato. Tale fenomeno ha coinvolto quasi in contemporanea il francese, i dialetti alemanno e bavarese parlati nelle odierne Germania meridionale e Svizzera tedesca, ed i dialetti del nostro versante delle Alpi. È il motivo per cui oggi una frase come «andai a letto» in Italia del Nord viene sì compresa ma raramente usata se non nello scritto, mentre è comunemente usata dalla Toscana fino all’Italia meridionale, anche se oggi il passato prossimo tende ad imporsi anche in quelle regioni. Abbiamo quindi un caso in cui sono stati i dialetti ad influenzare la lingua italiana. Nel francese l’accantonamento del passato remoto (passé simple) è stata graduale; la forma è registrata e permane almeno a livello scritto. Nei dialetti meridionali del tedesco il passato remoto è invece quasi completamente scomparso, come nel bresciano. In bresciano si trova anche il tempo supercomposto, esistente in francese, che viene o veniva utilizzato soprattutto nel Sud-Est della Francia, una regione che ha avuto per secoli un rapporto di interscambio culturale e anche linguistico con l’Italia del Nord. Il tempo supercomposto serve a sottolineare che un’azione è stata portata a termine: Quan che go it disnàt...; Lorsque j’ai eu déjeuné... Vi sono anche affinità fonetiche ad es. con le vocalità del tedesco (röså, mür; rötlich, für). Il dialetto bresciano è lingua neolatina, e mostra naturalmente le affinità maggiori verso l’italiano, dialetti limitrofi e lingue romanze. Non si tratta tuttavia solo di radici linguistiche, ma anche di interscambi commerciali e culturali: l’oscuro termine dialettale per piselli, roajòt, designava in origine un legume affine ma non identico al pisello, un tempo coltivato in tutta l’area appenninica e chiamato roveja; oggi viene coltivato solo nell’area dei Monti Sibillini, tra Marche ed Umbria, ed è presidio Slow Food. Il termine dialettale per arancio, portogàl, oggi già in disuso, è dovuto al fatto che erano mercanti portoghesi a trasportare gli agrumi dai luoghi in cui venivano coltivati - Sicilia, Spagna, Marocco - verso il resto d’Europa. E proprio per questo è imparentato col termine arabo bourtouqal e col turco portokar. Ho cercato di evidenziare come la lingua dei nostri antenati non fosse affatto la lingua di un mondo antico piccolo e gretto; e che anzi, come ha aiutato me, può o avrebbe potuto essere d’aiuto anche ad altri nell’apprendimento di alcune forme sintattiche che essa si trova ad avere in comune con altre lingue europee. Esiste su Wikipedia, per chi volesse approfondire, un bel contributo dedicato alle strutture linguistiche del dialetto bresciano, per il quale ringrazio l’autore come ringrazio anche questo giornale che ha distribuito in più occasioni un dizionario bresciano-italiano. Può essere una buona cosa conoscere ciò che ci si sta lasciando alle spalle. Francesco Pialorsi
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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