La legge sull’aborto utile per frenare l’illegalità

AA

Scrivo per rispondere alla lettera comparsa sul Vostro e nostro giornale in data 9 ottobre 2017 a firma del signor Gianmaria Spagnoletti. La legge 22 maggio 1978 n. 194 è una legge che, prima di essere contestata, va letta e conosciuta e ne va compresa la ratio altrimenti si rischia di «parlare per slogan». La legge non ha mai inteso «regredire» l’embrione a «non umano», ma ha operato una scelta. Preso atto del fatto che gli aborti esistevano anche prima di una loro regolazione per via legale, che erano procedure rischiose per la salute e la vita anche delle donne che lo praticavano, che esisteva una reale ipocrisia del sistema, per cui, pur essendo l’aborto vietato, spesso e volentieri erano gli stessi uomini «cosiddetti» padri del concepito che pagavano personaggi senza scrupoli per eliminare il frutto del concepimento, che esistevano anche medici che privatamente e a suon di denari, praticavano aborti di nascosto, e che tutto ciò andava a danneggiare non solo le donne, ma anche i costi della sanità (vorrei ricordare che assistere e soccorre una donna che sta male per un aborto praticato in condizioni igieniche precarie e con strumenti pericolosi ha un costo che non può essere sottovalutato), il legislatore ha scelto di «privilegiare», in un certo senso, una vita già autonoma e giuridicamente rilevante (quella della donna) a quella non autonoma e appena abbozzata di un embrione. E l’ha fatto con parecchi limiti. Casomai, ci si dovrebbe interrogare sul come mai molte parti di questa legge non siano state bene applicate e mi riferisco soprattutto al prezioso lavoro di prevenzione delle gravidanze indesiderate. Io credo che l’interruzione volontaria di gravidanza non sia la causa della denatalità e che vietarla o renderla più difficile, lasciarla economicamente sulle spalle della singola donna, non sia né utile, né giusto, né risolutivo della crisi demografica del nostro Paese. Vietare il ricorso all’Ivg o renderlo un costo privato, farebbe ben presto tornare le donne nelle condizioni precedenti all’introduzione della legge. Le donne non smetterebbero di abortire, si creerebbe nuovamente un clima di clandestinità e di ipocrisie, una grave discriminazione in base alla posizione sociale. Per combattere la denatalità, secondo me, sarebbe più utile investire in misure attive di sostegno alla maternità, come l’impegno ad aumentare l’occupazione giovanile e soprattutto femminile, misure atte a sostenere il lavoro, una volta ottenuto, in modo che le giovani donne divenute madri non si sentano costrette a rinunciare al lavoro perché vittime di discriminazioni in campo professionale o di una scarsa rete di aiuti e supporti. Ci vorrebbero misure che permettano una maggiore divisione del carico di accudimento del nuovo nato e di cura della casa, da parte dei padri (anche i giovani padri spesso vorrebbero poter partecipare più attivamente alla crescita del loro bambino, ma, di fatto, non possono, perché il mondo del lavoro non consente loro di farlo), investimenti a lungo termine da parte dello Stato perché con i «bonus bébé» non si va avanti a lungo: un figlio continua a costare - e non solo in termini economici - anche ben oltre i primi anni di vita. Ai giovani e alle giovani donne, soprattutto, manca la speranza nel futuro, manca la programmazione a lungo termine. La società di oggi, viziata da edonismo, regressione culturale, povertà economica e non, è il prodotto di una politica miope e basata sul familismo amorale dei nostri governanti. Non è certamente vietando l’aborto o rendendolo un costo privato che si risolve questo problema, anzi.

// Lettera firmata

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Condividi l'articolo

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato