Italiani alla lunga. Quando possiamo dirci «cittadini»

Il decreto-legge n. 36 del 28 marzo 2025, recante nuove norme sulla cittadinanza italiana, è stato varato, come è forse noto, quasi in sordina ed è stato poi convertito in legge, con procedura d’urgenza, lo scorso 20 maggio. È perciò cosa fatta. Senza tema di esagerare, si può affermare che una iniziativa così fulminante appare quasi come una «Bltitzkrieg», ossia una guerra-lampo. Il cuore del provvedimento governativo è, infatti, a suo modo, rivoluzionario: dallo scorso 28 marzo si è infatti cittadini italiani, secondo le nuove disposizioni, se si nasce in Italia da genitori italiani ovvero, nel caso di nascita all’estero, se i genitori o i nonni (ma non più i bisnonni) sono nati in Italia. Oltre a ciò, diventa causa ostativa il possesso di un’altra cittadinanza. In questo modo una platea indeterminata di cittadini iure sanguinis, stimata da taluni in almeno dieci milioni soltanto nella America Latina, viene privata automaticamente della possibilità di chiedere il riconoscimento della cittadinanza italiana. La legge per altro ha valore retroattivo, il che appare persino aberrante e contrario, comunque, ai principi di civiltà giuridica. Perché il governo ha agito in maniera così contundente? Volendo scandagliare le motivazioni politiche all’origine dell’azione governativa, sembra lecito affermare che la nuova normativa riflette anzitutto lo stato di panico dell’Esecutivo per le conseguenze politiche di medio e lungo periodo connesse con la corsa alla cittadinanza italiana, in America Latina e altrove. In tal senso, le proiezioni statistiche appaiono purtroppo inquietanti. I sei milioni di concittadini all’estero, già triplicati nel corso degli ultimi 15 anni, potrebbero crescere secondo una progressione geometrica nei prossimi anni e decenni. Ciò significa che il Parlamento della Repubblica Italiana verrebbe eletto da milioni di connazionali, che hanno con l’Italia un rapporto tenue. Non sono tenuti, per esempio, a pagare le tasse nella Penisola, che è poi il fondamento della cittadinanza. Ciò nondimeno, le nuove disposizioni sembrano violare il principio di irretroattività della legge come pure lo spirito, se non la lettera, della Carta costituzionale (basti ricordare quanto afferma l’articolo 22 della Costituzione: «Nessuno può essere privato per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome»). È lecito, perciò, immaginare che spetterà alla Corte costituzionale di correggerne i difetti più evidenti.
Gerardo PettaZurigo
Caro Gerardo, il tema è spinoso assai, pur essendo rispetto ai migranti l’altra faccia della medaglia. In punta di diritto nulla da aggiungere alla sua esaustiva disanima. Comprendiamo invece la «ratio» in base alla quale è stata cambiata la normativa. A spiegarla, proprio qui, al Giornale, quando un paio di settimane fa è arrivato in visita, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, il quale lamentava la concessione della cittadinanza a lontani discendenti, che non solo di italiano avevano poco o nulla, ma altresì osteggiavano il nostro Paese, salvo poi richiederla per goderne dei benefici di passaporto, potendo girare il mondo senza problema. «Abbiamo uffici comunali di piccoli paesi - ha detto - letteralmente ingolfati di richieste di persone che con noi non vogliono centrare nulla». Poi è vero, la Corte dovrà correggere eventuali difetti di forma, però la volontà politica è limpida, così com’è altrettanto chiaro che si impone una riflessione seria sul significato pieno di «cittadinanza». Sarebbe bello in modo laico, senza interessi di bandiera, badando alle indicazioni di principio, senza scordare la parte pragmatica. Cosa la qualifica? Una linea ereditaria? Pagare le tasse, come dice lei? La conoscenza e adesione ad usi e costumi? L’esclusività, cioè non poterne avere più d’una? Una questione complessa, insomma, e ragionarci costa fatica. Fare finta che il problema non esista non è certo un modo per risolverlo. Almeno la nuova normativa una scelta l’ha fatta. (g. bar.)
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