Io, salvato dal Covid dopo 63 giorni di dura «battaglia»

Tutto è iniziato i primi giorni di marzo quando si sono manifestate alcune (apparentemente) banali linee di febbre. La paura del nuovo virus era già presente da qualche settimana, le precauzioni erano già state adottate, l’attività era stata chiusa prima che le autorità lo imponessero e le mascherine già indossate; evidentemente, tutto ciò non era bastato. Dopo alcuni giorni di febbre in aumento, in seguito all’insistenza di mio figlio e d’accordo con il medico di base e la cardiologa che mi segue da anni, la decisione è stata quella di farmi ricoverare. Così, dopo un rapido saluto a mia moglie, alle 20.30 del 19 marzo mio figlio mi ha accompagnato al pronto soccorso della Poliambulanza; ero stanco, spossato, febbricitante e con un lieve affanno respiratorio. La Tac effettuata in Pronto soccorso evidenziava la presenza di una polmonite interstiziale bilaterale, con compromissione polmonare tra il 25 ed il 50%. Due giorni prima avevo effettuato una radiografia: ero risultato completamente pulito. La prima notte è trascorsa su un lettino provvisorio, ma già dal giorno seguente avevo ottenuto un letto normale, in una stanza; mi sembrava già un miraggio. L’ossigenoterapia mi aiutava nella respirazione. Dopo pochi giorni la situazione però peggiorava, di conseguenza venivo trasferito in una sala sub-intensiva, dove il monitoraggio delle funzioni vitali era costante. Qui ho imparato a conoscere diversi ausili medici, fino a quel giorno completamente sconosciuti: cannucce nasali, maschere facciali di tipo reservoir, total face, venturi. Ma tutto ciò ancora non bastava. Improvvisamente sono insorte complicazioni serie: una trombosi venosa acuta seguita da un’embolia polmonare. A questo punto i polmoni erano compromessi al 75%; in pratica, «respiravo» utilizzando il 25% dei polmoni e, probabilmente, servendomi anche degli occhi. In Poliambulanza è poi accaduto qualcosa di semi miracoloso: i medici erano riusciti a recuperare l’ultima dose disponibile del farmaco sperimentale «Tocilizumab». L’ultima dell’intero ospedale era stata riservata proprio a me. Quelli sono stati i giorni peggiori dove, tra i vari farmaci, mi veniva somministrata la morfina per sopportare il fatto di non avere ossigeno a sufficienza, nonostante tutti gli strumenti utilizzati. Evidentemente tali strumenti erano inadeguati visto il continuo peggioramento. Qui non nego che la mia vita era appesa ad un esile filo; le ore ed i giorni trascorrevano terribilmente con il dubbio di non potercela fare a superare le varie crisi respiratorie che di tanto in tanto comparivano. Poi come un dono è arrivato il ventilatore meccanico. Questo è uno strumento che sostituisce e supporta la funzione dei muscoli respiratori, imprimendo pressione sufficiente ad assicurare adeguati flussi di ossigeno negli alveoli durante l’inspirazione; inoltre, aiuta il corpo anche durante l’espirazione. Mi è sembrato un sogno... ho visto la luce, ho ricominciato a respirare e vivere. Questa è stata sicuramente la svolta fisica, accompagnata da una grande carica positiva di energia e ottimismo. Gradualmente vi è stata la ripresa e dopo parecchi giorni lo svezzamento dal macchinario. Dopodiché la strada era ancora lunga, infatti, dopo 20 giorni di ospedale respiravo comunque con l’ausilio di 15 litri di ossigeno al minuto. Successivamente sono stato trasferito alla Domus Salutis per proseguire il percorso di recupero fisico e respiratorio, con cure e fisioterapia. L’elemento che ricordo perfettamente, sia alla Domus che alla Poliambulanza, è l’atteggiamento del personale che ho incontrato. Medici, infermieri, sanitari, tutte persone dall’enorme umanità che in questi tempi svolgevano anche la funzione emotiva dei famigliari. In particolare, durante le crisi respiratorie ricordo che le infermiere si avvicinavano chiamandomi sempre «caro», tenendomi per mano e posizionando l’altra mano sul petto al fine di mantenermi calmo e aiutarmi a respirare. Momenti durissimi che non potrò mai dimenticare. Un’altra notevole dose di energia positiva è arrivata dalla conferma dei due tamponi negativi: al 23 aprile ero ufficialmente guarito dal virus, restavano da curare i danni che aveva lasciato. Durante il percorso della malattia ho conosciuto svariate persone ed alcune purtroppo non ce l’hanno fatta. Un grande pensiero e una preghiera vanno a tutti loro, insieme a chi sta ancora combattendo contro il Covid-19. Come da mia indole, sono sempre stato fiducioso e speranzoso fidandomi dei medici, affidandomi alla fede e aggrappandomi alla «vicinanza virtuale» della mia famiglia. Penso anche ai miei familiari che hanno sofferto molto per il fatto di non poter fare null’altro che attendere, con ansia, ogni giorno la telefonata dall’ospedale che descriveva le mie condizioni con il bollettino medico. Rimanere 63 giorni lontano da loro è stata una prova molto ardua; nel complesso è stata un’esperienza imparagonabile ad ogni precedente ricovero ospedaliero. Oltre alle sofferenze fisiche e psicologiche, non scorderò l’umanità che ho percepito da degente, in ogni persona che incontravo. Mi ha aiutato molto anche una fotografia dei miei nipotini, sempre esposta sul comodino, ammirati da medici ed infermieri. E così si arriva all’ultimo step del percorso, dopo più di due mesi, le tanto agognate dimissioni! Arrivato a casa trovavo una bellissima sorpresa. Infatti, sul cancello di entrata era stato appeso un lenzuolo con scritto «Bentornato Nonno Eu», il tutto contornato da cuori e tanti palloncini colorati. A quel punto tutto si è risolto in un pianto liberatorio per l’impatto emotivo immaginato e pregustato a lungo. I baci e gli abbracci tanto attesi, la gioia di tornare in famiglia, la gioia di essere a casa propria, da guarito. In questi giorni ho effettuato diversi controlli con ottimi risultati, mi sento molto bene! La malattia sicuramente avrà lasciato qualche traccia ma pian piano migliorerò sempre più. Approfitto di questo spazio per ringraziare il mio medico dottor Bonizzardi, la mia cardiologa dottoressa Mor Donata (un angelo sempre presente), la dottoressa Bigni (per il grande e tempestivo intuito), lo pneumologo dottor Lombardi ed il dottor Brunelli (per l’interessamento e la solidarietà costantemente dimostrati verso i miei famigliari). Ringrazio anche la psicoterapeuta, dottoressa Patrizia, che con una tecnica chiamata «EMDR» in sole due sedute mi ha aiutato ad alleviare e rimuovere i traumi dei momenti terribili. Ringrazio tutti i medici non citati ed il personale infermieristico di entrambe le strutture ospedaliere. Questa esperienza mi ha lasciato, come immagino a molti, un senso di smarrimento e di incertezza. La mia scaletta delle priorità è stata completamente rivista, dando più valore al presente senza dimenticare mai che siamo nelle mani di Dio. Per ultimo, ci tengo a ringraziare tutto il paese e coloro i quali hanno tifato e pregato per me!
// Eugenio Brognoli Molto, molto lunga, ma da leggere tutta d’un fiato: in deroga agli spazi previsti, pubblichiamo integralmente (ogni frase ha un suo perché) la lettera di nonno Eugenio, sopravvissuto al Covid, che racconta il travaglio dei 63 giorni lontano da casa; il dolore fisico, quello psicologico; il ricordo di chi non ce l’ha fatta e di chi ancora soffre; la riconoscenza verso chi lo ha curato e la sua «rinascita». Grazie Eugenio, il suo racconto ci riporta a quelle terribili settimane e ci spiega - senza mediazioni - come è stato vissuto «da dentro». Cosa ha lasciato: smarrimento ma anche rivisitazione delle priorità, con l’ancoraggio della Fede. (n.v.)Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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