Io, nipote che rende omaggio e dà voce al nonno deportato

24 dicembre 2024. Mi chiamo Giuseppe Derada, nato a Travagliato il 25 dicembre 1923. Esatto, fra poche ore compirò 101 anni! Ma perché parlare di me questa sera? Perché quel testardo di mio nipote (forse la testardaggine gliela ho trasmessa con il corredo genetico e capirete poi il perché!), si era convinto tempo fa di scovare notizie. E le notizie sono arrivate magicamente pochi giorni or sono. Sono nato in via Napoleone al numero 19, da una famiglia di mugnai, mio padre Faustino partecipò alla Prima guerra mondiale, ebbe due mogli e tanti figli, tra cui il sottoscritto. Avevo tanta voglia di fare e di vivere. La grande guerra era un ricordo e noi tra un sabato fascista e l’altro siamo cresciuti, forse controvoglia o in verità ammaliati da quel soggetto che prese il potere senza nemmeno partecipare alla marcia di conquista. Presi la licenza di quinta elementare, non mi piaceva moltissimo frequentare la scuola, ma ero attento e vispo. Terminai gli studi di quinta elementare e nel frattempo aiutavo la famiglia come agricoltore. Campi da coltivare, vita all’aria aperta e a dispetto delle grandi difficoltà economiche e di sopravvivenza, vivevamo con grande spensieratezza. Crescendo mi sono dato all’edilizia come tanti miei compaesani e sono diventato adolescente. Si dice che fossi di animo sanguigno, durante un’azzuffata tra ragazzi ho pure addentato a morsi l’orecchio di un ragazzo, poi pentendomi. La situazione italiana sembrava andare per il meglio, forse le promesse che ci avevano fatto negli innumerevoli anni di retorica si stavano effettivamente avverando, ma qualcosa stonava. Prima il patto d’acciaio con quel «baffetto» d’oltralpe non piaceva nemmeno ai più stretti, poi impreparati e controvoglia si arrivò alla scellerata dichiarazione di guerra nel 1940: avevo 17 anni e non mi preoccupavo perché la guerra veniva dichiarata lampo. Pensavo tra me e me «se dura un paio di anni me la scampo!». Ma non andò così, la guerra si è poi protratta per tutto il 1941 e arrivò anche il mio momento, il periodo di addestramento e poi la chiamata alle armi. Il 7 aprile 1942 diventai soldato presso il distretto militare di Brescia e lasciato in congedo provvisorio; poi il 10 gennaio 1943 venni richiamato alle armi e inviato nel 22esimo settore della G.A.F. (guardia alla frontiera) in Aidussina. Matricola 31388 XXIV corpo armata Udine 24° comando alla frontiera 22° settore di copertura «Idria». Avevano richiamato alle armi i nati fino all’aprile del ’24; per pochi mesi sarebbe toccata anche a me quella schifosa guerra! La dea bendata non mi aveva sorriso. Però, fortuna vuole che il fronte orientale, tecnicamente chiamato Vallo alpino orientale, era abbastanza calmo. Era costituito da un sistema di fortificazioni a difesa della frontiera del territorio italiano confinante con la Jugoslavia. Si trattava di postazioni modeste, per lo più avevamo mitragliatrici. Si viveva bene, l’esercito italiano aveva occupato la zona della Lubiana nel 1941 seguendo l’invasione tedesca della Jugoslavia nel marzo dello stesso anno e fortunatamente non avevo dovuto partecipare a quel processo di pulizia etnica e fascistizzazione del periodo precedente dove il Regio Esercito aveva avuto l’ordine di «ripulire» i territori sloveni per radicare famiglie italiane. Quindi noi commilitoni, tra una nazionale senza filtro e l’altra, dovevamo solo pattugliare le zone di confine. In verità ogni tanto si presentavano alcune schermaglie di alcuni partigiani locali che rivendicavano i loro territori barbaricamente occupati. Forse non ho mai sparato un colpo, meglio così! Non ricordo. Le giornate trascorrevano di pattuglia fino alla metà del 1943 quando con la deposizione di Mussolini, il 25 aprile, le attività della resistenza si fecero più intense. Successivamente il generale Pietro Badoglio dispose dal 10 agosto di ricollocare in Italia alcune forze del Regio Esercito: ma io non ero tra questi! La dea bendata non mi sorride per la seconda volta... Così si arriva alla data dell’8 settembre 1943, quando l’armistizio con le forze angloamericane lasciò alla mercé della prevedibile reazione tedesca 60.000 combattenti dislocati sul fronte, tra cui il sottoscritto. Mi trovai davanti ad un bivio, giurare per la nuova Repubblica Sociale Italiana che Mussolini, salvato sul Gran Sasso dai tedeschi aveva messo come capitale Salò, oppure rifiutare e diventare un IMI: Internato Militare Italiano. Perché non potevo semplicemente scegliere di smettere di combattere e tornarmene a casa mia? (anche quel lillipuziano del re Vittorio Emanuele III se ne era fuggito in Puglia). Quindi o combattere ora contro i tedeschi, oppure prendere la decisione di rifiutare e di non seguire ancora quel duce e quel fascismo che dopo vent’anni di retorica ci aveva portato ad una guerra totalmente impreparati: la campagna di Grecia ed Albania del ’41-’42 era stata uno sfacelo, la Libia pure, e la Russia... da qualche mese la ritirata e Nicolajewka grida morti su morti... ma per chi? L’8 settembre del 1943 a Idria ci presero in custodia le SS in seguito all’ordine di resa dato dal capitano Grimmi, e la mia vita subì un duro colpo. I tedeschi con cui fino al giorno precedente avevamo combattuto fianco a fianco, con la falsa garanzia di poter ritornare a casa se ci fossimo arresi senza resistenze, in verità ci portarono nei campi di prigionia dislocati sui territori tedeschi. Io fui diretto dapprima in Germania ad Altenburg, campo di smistamento appartenente al distretto del più celebre Buchenwald e poi a Sagan in Polonia nel lager Stalag VIII C. Ci misero un po’ a portarci, prima lo snodo a Verona e poi verso il Brennero stipati sui carri bestiame piombati. Eravamo concentrati come bestie, in condizioni disumane senza nemmeno la possibilità di espletare in altri luoghi le funzioni primarie. Il viaggio durò circa tre settimane. Quello tedesco era un campo di smistamento adibito a schedarci: togliendoci la nostra identità, diventammo tecnicamente pezzi da lavoro. Ero la Matricola 50580 indirizzata al campo di lavoro Stalag VIII C. Io che vado in Polonia, ma chi si era mai allontanato così tanto da casa! Per fortuna ci arrivammo che non era ancora inverno e il peggio doveva ancora venire! Hitler, non rispettando le Convenzioni di Ginevra, da prigionieri di guerra ci trasformò in forza lavoro per il terzo Reich. Venimmo concentrati in queste fatiscenti strutture a soffrire il freddo, la fame e le difficili condizioni igieniche. Eravamo in 650.000 noi militari deportati nei campi di prigionia e vi risparmio quali aberranti situazioni abbiamo vissuto tra pidocchi, scabbia e ossa dolenti causate dai lavori forzati. Magra consolazione non essere nei campi di concentramento lì vicini, dove il fumo dalle ciminiere la faceva da padrone. Anche nel nostro era presente un forno crematorio adibito all’eliminazione dei prigionieri morti. Quindi bisognava resistere e continuare a vivere! Io vengo assegnato al lavoro in fonderia per due mesi e poi mi ammalo. In seguito in una cartiera come attestano i documenti. Facevamo turni massacranti di 12/14 ore. Ero magrissimo, visto che le razioni misere di cibo erano state diminuite ancor di più a causa del nostro scarso rendimento. I pochi rifornimenti di viveri inviati dall’Italia venivano confiscati dai tedeschi. Che beffa e quale perdita della dignità umana! Per i carcerieri noi italiani eravamo bestie, feccia, «badogliani» senza nessun diritto. All’inizio del ’44 ricevo l’unica cartolina postale da parte di mia madre Vincenza, mi scalda il cuore e mi dà molta forza. Trascorre così tutto il 1944, ci si fa coraggio tra noi italiani, ce la faremo a tornare a baita! Ci sono anche britannici, canadesi, slavi e greci. Si fanno nuove conoscenze, ci si conforta a vicenda e ci si sostiene nel mantenere viva in noi la resistenza a non diventare collaborazionisti: la Gestapo aveva preso la gestione dei nostri campi assieme a dei funzionari della Rsi, i quali continuavano con ossesso a presentarci la libertà qualora avessimo giurato fedeltà a quel fantoccio di neonata Repubblica Fascista. Ma io ero fedele alle mie idee, tradito nell’animo avrei resistito per i restanti lunghi ed estenuanti mesi. Poi all’inizio del 1945 si sentono le prime voci delle sconfitte di Hitler e i russi che avanzano. Il nostro campo di concentramento venne liberato alla fine del febbraio del ’45. Io prendo coraggio, assieme ad altri internati e forse aiutato da una crocerossina (la Croce Rossa Italiana aveva prestato uno sporadico servizio nei nostri campi). Mio nipote si è guardato tutte le 367 pagine dei documenti della CRI degli internati bresciani senza trovare il mio nome, per forza sono scappato! Fortunatamente con questa decisione avventata mi risparmiai la celebre e macabra marcia della morte, dove gli internati costretti a camminare forzatamente per essere trasportati nell’interno della Germania, collassavano per lo sforzo oppure venivano trucidati sul posto. Pensate che pesavamo mediamente dai 30 ai 40 kg, eravamo ridotti all’osso! Immaginatevi lontano chilometri e chilometri da casa, ritrovare la via del ritorno a piedi! Un passo dopo l’altro diceva Mario Rigoni Stern, ritornando dalla Russia. E così ho fatto! A piedi, su mezzi di fortuna, aiutato a volte dalle popolazioni locali e altre dagli alleati angloamericani che avevano strutturato dei piccoli ricoveri di fortuna dove potevamo rifocillarci e riprendere le forze. Ero finalmente libero! Sono rientrato al paesello il 20 luglio 1945, ben tre mesi dopo la liberazione. Mi avevano dato per disperso, perché non essendo rimasto con i tedeschi non risultavo negli elenchi redatti dalla Croce Rossa Italiana (quelli che mio nipote ha spulciato). Non voglio soffermarmi sulle difficoltà del rientro al paese dove era difficile raccontare quello che ho vissuto, un po’ per la sindrome del sopravvissuto e un po’ perché l’opinione pubblica non era pronta ancora ad affrontare e non credeva agli avvenimenti, o forse non ero pronto io. Pensate che in Italia la storia degli Internati Militari Italiani è stata presa in considerazione solo dagli anni ’80 in poi. Non venivamo interpellati alle cerimonie di Liberazione né come reduci, nemmeno come appartenenti alla Resistenza. Il giorno 21 luglio mi sono presentato spontaneamente presso il distretto militare di Brescia e richiamato il 27 per essere interrogato: a quel tempo in Italia già solo avere indossato la divisa del Regio Esercito significava essere stato un collaborazionista dei fascisti e nazisti. Vi era una parte politica che era saltata sul carro dei vincitori, quando fino al giorno prima aveva inneggiato al fascismo e un’altra parte che si ergeva ai nuovi della politica, ma che in sostanza utilizzava le stesse barbarie del sistema totalitario da poco sconfitto. Era un periodo non facile, ma capirono infine che ero stato solo sfortunato per cui fui messo in congedo e non mi addebitarono nessuna sanzione rispetto al mio comportamento tenuto dopo l’8 settembre. Beffa ulteriore, il 18 dicembre mi richiamarono al distretto per liquidarmi con 6.013 lire, magra consolazione per aver vissuto in seguito 18 mesi circa di internamento nei campi di prigionia. Non ho mai voluto raccontare la mia storia per intero, tacere era la strada scelta per andare avanti, la gente non capiva chi fossimo e cosa avessimo vissuto in tutti questi mesi; fino a che il mio nipote testardo consultando più volte il sito dell’associazione internati e non trovando mai corrispondenza, non si è dato per vinto e come per illuminazione ha inserito il nostro cognome staccato De Rada! Et voilà! Eccomi qui! La mia storia riprende quella di molti altri che hanno taciuto e sono riamasti in silenzio. Non ho voluto parlare; può darsi che a volte il desiderio di trasmettere gli accaduti ci fosse, ma era troppo doloroso. Il giorno del giuramento durante il servizio di leva di mio figlio Pietro ho pianto molto, l’unica volta che mi sono mostrato a lui perché mi ricordava che la guerra è una cosa brutta! Ho pianto per lui perché forse mi ricordava me trent’anni prima che partivo verso l’ignoto. Magari, a volte, davanti ad un piatto di minestra, mentre la mescolavo con il cucchiaio a mio modo avrei potuto aprirmi, ma ho preferito tacere e un passo dopo l’altro andare avanti per la mia vita: mi sono sposato, ho costruito una famiglia e tra mille difficoltà (come del resto hanno fatto molti altri italiani del mio tempo) ho partecipato a ricostruire una Nazione lacerata socialmente, moralmente e strutturalmente. Mi sono costruito una casa con le mie stesse mani, sempre un passo dopo l’altro. Riferiscono che le condizioni cagionevoli di salute hanno contribuito alla mia morte nel 1987. Il sanatorio di Pergine, nel dopoguerra, può avere alleviato un poco i problemi legati alle gambe, ma le ferite dell’animo sono rimaste. Questo è in breve un pezzo della mia vita, che è tornato alla luce come per magia ed è per questo che in questo Santo Natale è importante che la memoria storica rimanga in noi viva, perché noi siamo quello che è stato e tutti voi dovete imparare da tutto questo, non dimenticatelo. A mio padre Pietro, da un figlio ad un figlio.
Matteo Deradaberlingo
Caro Matteo, le eccezioni fanno bene alle regole, perciò pubblichiamo integralmente il suo racconto. Ché di questo si tratta: d’un racconto che dà voce a chi voce non ha più, ma - ed è il vero miracolo - vive ugualmente nel sangue che lui stesso ha generato. Lei ha saputo non soltanto mettersi nei panni di suo nonno, ma pure offrire a noi la possibilità di comprenderlo nell’essenza, onorando la memoria e il sacrificio di tutte le migliaia di persone deportate (la cui ricorrenza è stata ad inizio settimana, con la deposizione di una corona di fiori organizzata dalla Prefettura e la toccante consegna delle medaglie alla caserma Goito). E lo spazio ampio concesso oggi fa da ideale contrappeso al silenzio che a lungo hanno serbato coloro che da quell’inferno sono passati. «Non ho mai voluto raccontare la mia storia per intero, tacere era la strada scelta per andare avanti» è la frase che abbiamo trovato più toccante, perché noi stessi l’abbiamo udita dai deportati che in vita nostra abbiamo incontrato. A quel silenzio sostituiamo la nostra voce, poiché soltanto così, soltanto facendo memoria, allontaneremo la probabilità che simili tragedie ricapitino. E sosterremo i troppi che invece, in altre parti del mondo, la stanno tuttora sperimentando. (g.bar)
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