Io, insegnante deluso da come va la scuola italiana

Lettere al direttore
Lettere al direttore
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Sono un insegnante che lavora nella scuola media da ormai un po’ di anni. Ho scelto questo mestiere con passione, cercando di studiare e di prepararmi sempre al meglio prima di entrare in classe, e mai avrei pensato che i miei «superiori» avrebbero fatto di tutto per farmi passare entusiasmo e voglia di fare, con un sistema che spesso si mostra ostile a chi cerca di lavorare con serietà e coerenza. In questi giorni ho letto un articolo in cui si diceva così: «La scuola è il luogo della menzogna, dove sulla carta tutto funziona benissimo, ma in realtà tutto funziona poco o niente». Ed è proprio vero. Ci riempiamo la bocca di tante belle parole, come «inclusività», «l’alunno al centro», «buone pratiche», quando invece per tanti insegnanti e, in primis, per la dirigenza ciò che realmente conta è la tutela dei propri comodi e interessi, più che l’attenzione reale al percorso educativo degli studenti. Mi piacerebbe capire che cosa succede a certi docenti quando diventano referenti di qualcosa o, addirittura, presidi: prima erano insegnanti, e poi sono diventati burocrati e servi del potere, sempre più lontani dalla dimensione didattica, che si perdono in carte, riunioni e discorsi che non vanno a incidere minimamente sull’apprendimento dei ragazzi, ma che sottraggono tempo ed energia ai docenti, ostacolando il loro lavoro in classe. Un collega, un giorno, diceva che molto probabilmente a queste persone non è mai interessato e piaciuto insegnare. Preferiscono, invece, ricoprire «cariche» o ruoli dirigenziali, dedicandosi a compiti più vicini a quelli di un impiegato, lontani dalla didattica e dal rapporto con gli studenti. Questi incarichi, oltre a garantire una posizione più comoda e meno esposta alle difficoltà quotidiane della classe, offrono anche un compenso economico maggiore. La scuola viene, così, sempre più gestita da persone che hanno perso, o forse non hanno mai avuto, la passione per l’insegnamento. La scuola, inoltre, è oggi attraversata da un linguaggio sempre più tecnico e frammentato, fatto di sigle e acronimi - Pdp, Pei, Pai, Gli, Glo, Ptof, Stem, solo per citarne alcuni - che non fanno altro che allontanare i docenti dal cuore del proprio lavoro: l’insegnamento. Il merito, poi, non esiste: anzi, se sei un incompetente ma non ti lamenti, sei più apprezzato, così come è apprezzata la capacità di conformarsi, di non creare problemi, di essere «gestibili». Chi lavora con serietà, onestà e spirito critico spesso viene ostacolato; chi preferisce non esporsi riceve maggiore considerazione e tutele: più sei onesto e lavori con professionalità, più sei ignorato, se non addirittura trattato male; più sei furbo e meno fai, più sei coperto, se non addirittura difeso. E sapersi vendere bene è sicuramente un vantaggio, perché le cose più importanti, agli occhi della dirigenza, sono forma e apparenza. Se c’è qualche problema che può mettere in cattiva luce la scuola, infatti, non se ne parla e viene subito insabbiato. Si regalano il 6 e la promozione a chi non ha mai fatto nulla, e si è stretti di manica con le eccellenze. A questo punto, bisognerebbe eliminare verifiche, voti, esami e bocciatura, e alla fine della terza media rilasciare un attestato di frequenza: saremmo più tranquilli e sereni. Ogni giorno è un convivere con tanti insegnanti che hanno scelto la scuola come ripiego e bancomat, genuflessi a qualsiasi richiesta del dirigente e dei genitori, a cui non importa l’istruzione dei propri figli, ma solo la promozione, e la sicurezza, ogni anno, di avere un luogo dove poterli lasciare. L’insegnante, in più, deve essere pedagogista, psicologo, animatore, informatico, infermiere e, soprattutto, baby-sitter. E intanto, anno dopo anno, si registrano cali preoccupanti negli apprendimenti di base, in particolare in Italiano e Matematica. Eppure, nessuno interviene. Ci sono regole, normative e leggi che sulla carta devono essere ovviamente rispettate ma che, in realtà, a volte si seguono e a volte no, a seconda di quello che conviene. Mi capita, nei momenti di sconforto, di pensare alle parole di Marco Radaelli: «Vorrei cambiare lavoro, non perché non voglio più fare l’insegnante, ma proprio perché vorrei farlo davvero».

Lettera firmata

Carissimo, ci ha fatto venire in mente le olive, che soltanto lasciandole a mollo nell’acqua perdono l’amaro. La sua, di amarezza, s’avverte subito, ma è un sentimento per il quale proviamo simpatia, poiché partorito dal tenere al proprio lavoro. Alla propria missione, diremmo, se non temessimo di cadere nella retorica e fossimo certi di trovarci d’accordo su questo: insegnare non è un mestiere come gli altri. Al pari del prendersi cura delle persone, presuppone di credere in qualcosa di nobile, alto. Che questa tensione ideale vada a volte diluendosi o, peggio, che la burocrazia che gli si avvinghia attorno contribuisca a far perdere la voglia, invece che ad agevolare il compito, è un dato di fatto. Ecco perché, a pochi giorni dal principio di un nuovo anno scolastico, abbiamo scelto la sua lettera, affinché non rimanga soltanto lo sfogo di un docente arrabbiato e deluso, bensì rappresenti un monito per i colleghi che diventano «referenti di qualcosa» o dirigenti. Ricordando loro che l’apparato è importante se è al servizio della struttura, non se gli fa da fardello. E invece di perpetrare ciò che hanno trovato o di ulteriormente complicarlo, consigliamo di provare un cammino a ritroso, un tornare all’origine dell’insegnare, semplificando, smontando gli imperi di sabbia che via via si è costruito. Così immaginiamo l’unica, vera riforma della scuola, quella fatta senza clamore, dall’interno. (g. bar.)

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