Io, docente precario Mi sento impotente ma voglio crederci

Lettere al direttore
Lettere al direttore
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Ho trentadue anni e sono un docente precario. Alle spalle due lauree a pieni voti, due concorsi a cattedra superati e una serie di adeguamenti professionali che mi hanno permesso di giocarmi le carte per un posto nella scuola. Io le carte le ho giocate, ma oggi dalla regia mi dicono che qualcosa è andato storto.

Alle ore 8:00 ho prestato onore alla nomina giunta verso le 19:30 di sabato sera (pura follia, lo so) e mi sono recato a scuola. Incredibile o no, mi sono trovato fuori dai cancelli poco dopo aver scambiato i saluti di rito con i colleghi di sempre: respinto per «errore nell’algoritmo». Io come tantissimi altri. Tornando alle carte, voci di corridoio ipotizzano che siano state mischiate male. Dove penda la bilancia, questo non lo so, ma può essere stato un terminale a destabilizzare l’intero sistema?

Qualcosa sicuramente non mi torna, eppure cerco di non farne un problema. Del resto ho poco margine d’azione tra i meandri di questa Torre di Babele battezzata scuola italiana, alla quale ormai appartengo da quasi otto anni.

Torno a casa e aspetto, così come mi è stato consigliato di fare dalla segretaria dieci minuti dopo aver compilato il fascicolo di routine che, non è uno scherzo, mi sono dovuto trasportare a casa, vuoto, insieme alla speranza di una pseudo-certezza sul futuro. È vero, abito nell’hinterland. Avanti e indietro per sigillare quel contratto appare un piano discutibilmente avallabile se penso a un lavoro che, ahimè, ho imparato a chiamare missione. La strada non mi pesa e alle gabole burocratiche sono avvezzo. Che proprio non sopporto è aver congelato la mia professionalità, e il rispetto verso il mio tempo, prezioso come i sacrifici che non ho mai smesso di fare. Dicono che la speranza sia l’ultima a morire «Vedrai, a breve sistemeranno». Non ho dubbi, prima o poi tutto si sistema sempre, è la vita, ma credo che le rassicurazioni non bastino a colmare il senso di impotenza che traspare dai volti di chi, come me, stamattina avrebbe voluto aprire la porta e vedersi in cattedra. Così scrivo.

Voglio essere la voce che smuove le coscienze di coloro che, dall’alto, prendono decisioni troppo importanti da passare in rassegna. Una pretesa esagerata, forse, ma del tutto lecita. Chi si è battuto per il diritto all’istruzione un giorno ha detto che un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo. Io oggi dico che un insegnante, una lettera e un giornale hanno, per la scuola, lo stesso potenziale.
Rudy Ranza
Ghedi

Caro Rudy,

per eccesso di cinismo non vorremmo interrompere un’emozione (anche se sarebbe più corretto chiamarlo «sentire») e fare velo al candore stimabile della sua passione.

Che alcune coscienze non abbiano orecchie per sentire voce capace di smuoverle è indubbio, ciò non sminuisce però l’importanza di darle eco, di condividerla. Il mondo si cambia anche così: non rassegnandosi e credendo che il cambiamento, in meglio, è sempre possibile. (g. bar.)

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