Io, conservatore che non ha paura dei popoli

In tempi di grande incertezza geopolitica e di conclamata «crisi delle democrazie occidentali», vale la pena volgere lo sguardo non soltanto ai grandi imperi, ma anche ai popoli che - in silenzio o a gran voce - provano ancora a scegliere il bene. La recente elezione in Romania ne è un esempio luminoso. Un Paese spesso marginalizzato nello scacchiere europeo ha espresso, con partecipazione significativa, una preferenza netta per una guida centrista e pro-europea. La vox populi, in questo caso, non è stata barbarie, ma misura. Non sfogo, ma discernimento. Un segnale, forse, per le democrazie più vecchie e stanche dell’Ovest. E proprio qui nasce il punto cruciale della mia riflessione: che cosa tiene oggi insieme le democrazie occidentali? Qual è la loro bussola, il loro fondamento? Per decenni, l’Occidente si è aggrappato a un’idea salvifica: l’egemonia americana. Gli Stati Uniti non solo come potenza militare ed economica, ma come faro morale, fondato su un ethos condiviso. Ma dopo la caduta del Muro di Berlino, qualcosa è cambiato. La vittoria sul comunismo ha coinciso con l’inizio di un processo silenzioso ma devastante: l’America ha smesso di essere il custode del trascendente, e ha voluto sostituirlo con sé stessa. «La nostra Costituzione è stata scritta per un popolo morale e religioso. È del tutto inadeguata al governo di qualunque altro tipo di popolo» - John Adams, secondo Presidente degli Stati Uniti. Quella consapevolezza - così chiara ai fondatori - è andata perduta. Non più Dio, ma mercato. Non più coscienza, ma procedura. Non più limite, ma desiderio. E questa trasformazione non è stata opera della sola sinistra liberal. Anzi, molta responsabilità va al cuore stesso della destra americana, che ha smarrito la propria bussola etica abbracciando il potere senza più il fondamento. In parallelo, anche l’Europa ha vissuto un progressivo svuotamento culturale. Eppure, non possiamo dimenticare - come ci ricordava Benedetto Croce - che: «Non possiamo non dirci cristiani». Non per fede personale, ma per struttura culturale. Perché l’idea stessa di persona, di dignità, di limite, di coscienza, nasce in Occidente dentro una matrice cristiana. Senza di essa, la democrazia diventa solo un meccanismo, e il diritto perde la sua anima. Oggi, le nostre democrazie sembrano fluttuare. Hanno regole, ma non sanno più perché l’uomo abbia valore. Parlano di libertà, ma senza verità. Eppure, qualcosa si muove. Là dove meno ce lo si aspetta - in Romania, in Francia, tra le pieghe di un’Europa apparentemente smarrita - la vox populi torna a essere vox Dei, e non perché impone una religione, ma perché cerca un senso. Forse è proprio questo il segnale da cogliere: non serve un impero per salvare la democrazia, serve un fondamento condiviso. Serve la riscoperta di un ordine più alto, morale, trascendente. Non per nostalgia, ma per necessità. L’Occidente non può vivere solo di procedura. Deve ricordare perché ha cominciato a credere nella libertà. E deve farlo senza paura del popolo, ma con fiducia nella sua coscienza.
Silvio William FappaniUn conservatore democratico (e speranzoso)
Caro Silvio, nel merito di ciascuna delle molte questioni che pone la rimandiamo al nostro Carlo Muzzi, che tra l’altro proprio ieri ha commentato le vicende rumene e in tema di storia politica è certamente più preparato di noi. Ciò che invece vogliamo sottolineare positivamente è il fatto che lei non ha perso la speranza, che su questi temi si accalora e ne fa una questione di prassi, non soltanto sofismo. Un richiamo accalorato che ci riporta alla mente la saggezza di un motto agostiniano (ora che, grazie a Papa Leone XIV, Sant’Agostino è tornato di moda) scritto a caratteri cubitali su una parete dell’abbazia di Novacella, alle porte di Bressanone: «Ciò che vuoi accendere negli altri, prima di tutto deve ardere in te». Qua sta il nocciolo, caro Silvio: la passione. Passione per il pensiero, per la discussione, per lo studio, per la ricerca di valori autentici e condivisi, per il coraggio delle scelte giuste prima ancora che convenienti. È un letargo, quello della politica alta, non di bottega, che dura da troppo tempo, ma che confidiamo possa terminare. Magari cominciando proprio da qui, dai giornali, dallo spazio che si riserva al dibattito e alla rinnovata consapevolezza del ruolo di «piazza pubblica» che essi hanno sempre avuto e che è un piacere, oltre che un onore, rinnovare ogni giorno. (g. bar.)
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