Il nome di Miglio: ad Adro andava proprio rimosso?

Lettere al direttore
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Il 10 agosto è ricorso l’anniversario della scomparsa del professor Gianfranco Miglio, avvenuta 24 anni fa. E il sindaco di Adro - povero tapino - ha pensato bene di celebrare la ricorrenza disponendo la rimozione dell’intitolazione al grande studioso lariano dell’edificio che ospita l’Istituto Comprensivo del comune. Un edificio tenacemente voluto - e con un’operazione virtuosa dal punto di vista amministrativo - dall’allora sindaco Oscar Lancini nel 2010. Quando si guidano le istituzioni politiche di una comunità territoriale - qual è nei fatti un comune - non bisognerebbe mai ragionare ricorrendo all’ideologizzazione delle questioni amministrative. Non è corretto e soprattutto non paga mai. Scaricare sulle casse della comunità i costi di quello che a tutti gli effetti pare un vero e proprio capriccio ideologico puzza lontano un miglio (!) di danno erariale. Oltretutto non era l’Istituto scolastico di Adro a essere intitolato al professore, bensì - più semplicemente - l’edificio che lo ospitava. Che male c’era? Era proprio necessario togliere il nome di Gianfranco Miglio dalla facciata della struttura? Non si tratta del primo caso in cui viene levata l’intitolazione di un luogo pubblico al professor Miglio da parte di un’amministrazione di sinistra che subentra a un’amministrazione d’ispirazione leghista. Atti simbolici, intendiamoci, ma del tutto inappropriati e inutili, che seminano rancore. E soprattutto, non sono atti istituzionali da sindaco, primo cittadino di una comunità. Con Carl Schmitt, Max Weber, Lorenz von Stein, Otto Brunner e Otto Hintze sul piano europeo, Norberto Bobbio, Giovanni Sartori e Nicola Matteucci sul piano nazionale, Miglio è stato uno dei maggiori scienziati della politica - definizione che preferiva a quella di politologo - della seconda metà del Novecento. Ma sono nomi, quelli indicati sopra, che molto probabilmente non dicono nulla al sindaco di Adro. Schmitt definì Miglio «il più grande tecnico delle istituzioni moderne» e l’«uomo più colto d’Europa». Uno studioso che solo per un attimo, tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, nella fase conclusiva della sua vicenda biografica, accademica e intellettuale (1918-2001), ha intrecciato il suo percorso con l’allora Lega Nord. Ma al movimento non è mai stato iscritto: da studioso super partes, l’ha solo appoggiato. Sin dall’esperienza antifascista del «Cisalpino» (1945), Miglio ci ha spiegato l’essenza del vero federalismo, in contrapposizione all’autonomia regionale. E ci ha dimostrato come il tenue regionalismo inserito nella Costituzione repubblicana sia stato deliberatamente concepito, all’indomani della fine del Secondo conflitto mondiale, allo scopo di scongiurare la costruzione di uno Stato diverso, quello federale. Ricorrendo all’idea di una sovranità intesa come prerogativa esclusiva e assoluta delle comunità territoriali che - in risalita - delegano allo Stato quei poteri che non possono onorare né gestire, Miglio spiegò al Paese che chi vuole governare deve confrontarsi con le aporie della statualità nazionale a partire dall’Unità del 1861. Ma deve anche fare i conti con la Lombardia e con il grande Nord, per cercare di ricomporre queste contraddizioni originarie in chiave federale. Il suo progetto di Costituzione e la teoria delle tre Italie degli anni Novanta - che riprendeva le posizioni del «Cisalpino» - puntava a risolverle, contrapponendosi a uno Stato burocratico e accentratore, ingordo e predatore, quale nei fatti è rimasto ancora oggi. Negli anni Cinquanta Miglio fondò l’Isap (Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica) e, nei Sessanta, la Fisa (Fondazione italiana per la storia amministrativa) con l’obiettivo di conferire un inedito approccio scientifico allo studio delle istituzioni e delle politiche pubbliche. Le sue impietose analisi del sistema politico e della classe politica lo portarono a censurare gli eccessi di parlamentarismo e la deriva partitocratica nelle dinamiche delle istituzioni rappresentative. Miglio condannò pure la crescente dittatura degli apparati burocratici e amministrativi, che condizionavano - e, ahinoi, purtroppo condizionano - un sistema politico incapace di imporsi. E criticò anche il clientelismo e l’affarismo che caratterizzava una classe politica di qualità davvero assai modesta, chiusa a riccio nelle sue rendite di posizione. Si tratta di un oggettivo deficit di qualità che, ancora oggi, rappresenta un enorme problema per il buon funzionamento delle istituzioni politiche. Il caso del sindaco di Adro e della rimozione del nome del professor Gianfranco Miglio dall’edificio che ospita il polo scolastico lo dimostra. Che tristezza...

Stefano Bruno Galli
Professore di Storia delle Dottrine e delle Istituzioni Politiche - UNIMI, già assessore regionale all’Autonomia e alla Cultura

Caro Galli, in principio una confessione: prendiamo a pretesto la sua lettera per espiare un peccato di omissione. Sulla vicenda di Adro, infatti, avremmo potuto e anche dovuto mettere qualche puntino sulle i e offrire ai nostri lettori una chiave interpretativa differente rispetto alla vulgata rilanciata a spron battente dai media nazionali. Ad essi non è parso vero, in un agosto tutto concentrato sulle crisi internazionali, di potersi appigliare a una simile polemica per dare un po’ di brio, più che di polpa, alle pagine nazionali di politica. Una narrazione tutta centrata sulla contrapposizione, che ha però alimentato un tifo da stadio, appiattendo la questione e riducendola a un fenomeno di «cancel culture», con Miglio - malgrado suo - nel mezzo. Ora che il falò della vanità s’è sopito, almeno tre elementi di pacata riflessione possiamo introdurli. Innanzi tutto aver voluto a suo tempo intitolare l’edificio scolastico a Miglio, aggirando il mancato consenso del Consiglio d’istituto a dedicargli la scuola, rientra nelle piccole furbizie che consentono di vincere una battaglia, mai la guerra (figuriamoci la costruzione di una comunità). Il professore stesso, fiero sostenitore delle autonomie - di tutte le autonomie, compresa quella scolastica - avrebbe tirato le orecchie agli amministratori locali che le hanno escogitate, utilizzando il suo nome come una leva, anzi, una clava. Secondariamente - ma di questo potrebbe scriverne con assai maggiore competenza qualche nostro editorialista - la vicenda stride all’interno della stessa Lega, che vive una crisi di simboli. E i simboli, si sa, contano eccome nella politica. Terzo, e forse più importante, è che questa vicenda buttata in caciara un merito l’ha comunque avuto: pur se tirato per i capelli (che non aveva), s’è tornato a parlare del professor Miglio, a cui le scritte a caratteri cubitali sui muri non rendono giustizia. Il modo migliore per ricordarne gli studi e la figura è infatti il suo, caro Galli, descrivendolo in sintesi, ma con perizia e cognizione di causa. E se Brescia vuol dare davvero una lezione a coloro che si sono limitati alla sterile polemica è di accettare che ad Adro si dia buon esempio ai ragazzi, evitando la confusione di aver intitolato diversamente edificio e scuola, dedicando invece al politologo Miglio un luogo ancor più rappresentativo, con un’iniziativa bipartisan. (g. bar.)

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