Il neoliberalismo ha fatto danni. Cambiamo rotta

Lettere al direttore
Lettere al direttore
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Negli ultimi tre decenni, con l’affermazione del neoliberismo, la politica non è stata riguardosa nei confronti del lavoro dipendente. Tutti i governi, con la tenue eccezione del ministero «Conte 1» (artefice del c.d. decreto dignità), hanno fatto propria la teoria riassumibile nella formula: ciò che va a profitto delle imprese private si traduce in benessere collettivo. Si sono succeduti molti governi, ma l’orientamento non è mai mutato. In pratica una democrazia formale, senza alternative sostanziali. Consustanzialmente alla virata della politica economica in senso neoliberista, si è imposta una visione del mercato e dei rapporti di lavoro che presuppone la libertà dell’impresa da quanti più vincoli possibile. Nei rapporti contrattuali si è verificato, perciò, un considerevole spostamento di potere e di forza a svantaggio del lavoro, con l’impresa in posizione predominante. Flessibilità del lavoro, precarizzazione, indebolimento dei sindacati hanno inevitabilmente prodotto un drastico calo dei salari reali e assenza di prospettive di vita autonoma per i giovani. La risultante bassa domanda interna ha provocato investimenti inadeguati, scarsa produttività e lavoro dequalificato. Il tutto con il fondamentale sostegno del progetto costitutivo dell’Unione europea, che ha dal suo inizio preparato il terreno (la cornice entro la quale i singoli stati aderenti all’Unione hanno applicato le teorie neoliberiste). È per questo meritoria l’iniziativa referendaria della Cgil, la quale - accanto a un quesito relativo all’importante questione dell’acquisto della cittadinanza - affronta il tema della responsabilità delle imprese in caso di infortunio durante lavori in appalto, il tema dell’indennità per i licenziamenti nelle piccole imprese e due istituti del cosiddetto «jobs act».

Sergio Farris
Lumezzane

Caro Sergio, il tema che pone è assai profondo e lo spazio delle lettere inadatto a una risposta seria e articolata quale meriterebbe. Ci limitiamo dunque a una domanda dai contorni frastagliati della provocazione (una provocazione positiva però, per stimolare il pensiero critico e non per affossare le altrui ragioni). L’analisi che fa lei, in sintonia con i promotori dei quattro referendum sul lavoro, non è figlia di un sistema di pensiero superato e inadatto ai tempi attuali? Non che il problema non ci sia, cioè che il liberismo senza regole - specialmente quello preteso dai colossi della produzione e ancor più della finanza - sia esente da responsabilità gravi. Tuttavia tutto non si può ridurre a male e bene, a impresa (cattiva) da una parte e forza lavoro (buona) dall’altra. Una dicotomia figlia di un modello di struttura sociale rigida e che alla prova della storia scricchiola, se non proprio fallisce; una bandiera sventolata da forze che sulla carta si definiscono «progressiste» ma all’atto prativo risultano fieramente «conservatrici». Ribadiamo: le novità non sono sempre positive, tuttavia vorremmo che coloro che vedono nitido il problema provassero a interpretare i segni dei tempi, andando avanti e non semplicemente innestando la marcia indietro. (g. bar.)

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