Il morto sul lavoro che alla Dolomite hanno dimenticato

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Premetto che la lettera che segue è stata scritta il 20 luglio, poche ore prima della terribile morte sul lavoro avvenuta presso la Dolomite Franchi. La tragica coincidenza di circostanze ha fatto sorgere in me molti dubbi sull’opportunità del suo invio, ma, a maggior ragione, verità e conoscenza hanno ora una nuova urgenza. Mi chiamo Maria Grazia Guerini, ho 51 anni e le scrivo a margine dei festeggiamenti da poco conclusi per i 100 anni della Dolomite Franchi, «100 anni scolpiti nel cuore di Marone», come recita lo slogan dell’evento. Tutto pensato in grande stile e senza badare a spese, con due eventi musicali, in particolare quello col Maestro Ezio Bosso, davvero commoventi e degni di nota, sia dal punto di vista culturale che musicale. Tutto questo mentre nel cuore di qualcuno si riaprivano prepotentemente vecchie ferite, mai del tutto rimarginate. Mio padre, Andrea Guerini, classe 1937, ha perso la vita il 2 novembre 1977 durante il suo turno di lavoro alla Dolomite Franchi, vittima di un’esalazione di gas tossici provenienti dai forni. Io avevo 9 anni, mia sorella Amelia 4 e mia madre Lucia 33. Quest’ultima dovette immediatamente costituirsi parte civile e richiedere l’autopsia, perché il primo certificato di morte recitava «arresto cardio-circolatorio». E non era il primo a morire in quella postazione... Fu una battaglia dura quella di mia madre, vedova, sola e senza lavoro, contro la grande fabbrica che sfamava le bocche di molte famiglie del nostro paesello, in anni nei quali il vento femminista del ’68 non aveva forse nemmeno marginalmente sfiorato le sponde del nostro lago. Allora la proprietà non partecipò ai funerali, non mandò le condoglianze. Oggi la proprietà, seppur cambiata, quasi per una sorta di inspiegabile dovere di coerenza, non ci ha invitate all’evento. Altre vedove, altri figli hanno ricevuto l’invito, noi no. Meglio forse dimenticare. Già, perché aprendo il libro «Dolomite Franchi: una fabbrica, un paese. 1919-2019, cento anni nel cuore di Marone», troviamo un’altra sorpresa, amara molto più del mancato invito. A pagina 60 c’è una dubbia testimonianza di un fratello di mio padre, che descrive così l’accaduto: «Una perdita di coscienza l’ha fatto cadere nel nastro dove è morto». Ecco, questo non lo accettiamo. Mia madre si è battuta per la verità e ciò ha impedito che si verificassero ulteriori morti in quella postazione di lavoro. Perché dopo 42 anni la verità è nuovamente diventata un miraggio? Per errore? Superficialità? O si tratta semplicemente di vergogna? Non temano, lor signori, conosco bene la vergogna, perché è quello che ho provato a nove anni, quando tutti gli occhi del paese erano puntati su di noi e mi sono sentita improvvisamente «diversa». Quella vergogna vorrei non fosse più mia, di mia sorella e di mia madre, ma di chi, al di là degli accadimenti inesorabili della vita, non sa affrontarne con dignità le conseguenze.

// Maria Grazia Guerini
Marone
Gentile Maria Grazia, ci piace pensare al mancato invito come ad una dimenticanza, complice anche il tempo trascorso e i mutamenti societari. La verità dei fatti però non ha scadenza. E vince sempre. Almeno finché ci sono persone come lei e sua madre che lottano per rivendicarla e onorarla. (n.v.)

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