Il mio campo abbandonato ai cinghiali
Odio i cinghiali. Tra me e loro non scorre buon sangue. Se potessi li sterminerei. Sì, certo, ad alcuni piacciono. La legge li difende. Vederli in «tivù» che scorazzano in ogni dove, velocissimi sui loro ridicoli stecchi, possono sembrare simpatici. Il loro muso tondo, affusolato, senza naso, le zanne sporgenti, gli occhi volpini, ficcati nel cranio, le orecchie pelose, semoventi, il corpo tozzo setolato, tondito, sgraziato ne fanno un essere sgradito, ma ambito per la carne saporita. Scendono dai monti la notte a Caionvico e ribaltano orti e vigneti. Sono ghiotti di larve, lombrichi, e formiche, divorano ghiande, castagne, noci e mandorle. Ma si cibano anche di radicchi, mele ed uva. Dove passano lasciano il segno. Io coltivo un vigneto sul declivio della Maddalena, ai margini del paese. È un bel brolo in cui tengo anche un ottimo orto, con cavoli, spinaci, valeriana, trevisani per l'inverno. Sono passati i «vandali» a quattro zampe: dovreste venirci a dare un'occhiata! Per tre volte da agosto ho coltivato e seminato le aiuole capienti di venti metri. E per tre volte mi hanno ribaltato il lavoro fatto. Se vorrò mangiare uno spinacio, dovrò comprarmelo. E non è possibile cintare tutto il campo. Non sono il solo a subire queste razzie. Il vicino ci tiene pure le galline. Due gallinelle se n'erano volate di sera, oltre la rete. Il giorno dopo ha raccolto qualche piuma, nei pressi della quercia, i rimasugli del pranzo divorato. Perché i cinghiali sono ghiotti pure di galline. «Poverini» sento dire, «devono mangiare pure loro!». I cinghiali non praticano il controllo delle nascite, non vanno in letargo, non soffrono la menopausa. Prolificano, prolificano. Amano la compagnia e dove va il capo si buttano in cento. Non hanno, in pratica, nemico alcuno, se non il tartassato cacciatore, che se si azzarda ad ucciderne uno, fuori stagione, viene messo alla gogna ed al pubblico ludibrio. In questi giorni esasperato per l'ennesima scorreria, sono andato da Tognù, una grossa ferramenta, e gli ho detto: «Dammi delle tagliole per cinghiale!» «Sono proibite e poi ne ho solo una». «Dammi quella!» Sono tornato nel brolo ed ho piantato la tagliola sul sentiero dove passano i cinghiali. Era sera, nessuno mi aveva visto. Ma la notte non dormii. Il pensiero che qualche vagabondo passasse da quelle parti e ci mettesse un piede, mi martellava la testa in un incubo. Mi immaginavo una gamba sanguinante a pezzi ed il processo in tribunale per gravi lesioni. Alle cinque, non resistetti, andai nel campo a far la guardia alla tagliola. Dei cinghiali, manco l'ombra. Ero solo, nella notte, al freddo, rannicchiato, sotto vento, nella scarpata, mentre l'umidità mi penetrava nelle ossa. Osservavo i tetti delle case di Caionvico, sotto ci dormivano, al calduccio i miei parenti, gli amici, i conoscenti. Io, invece, me ne stavo accovacciato nella tana, come un animale braccato, a dar la caccia ai cinghiali. Mentre io combattevo la mia guerra, i cinghiali si facevano beffa di me e se ne stavano fuori tiro. Dicono che sentono da lontano la presenza dell'uomo. Dal campanile suonarono le sette. Io ero sempre là, stanco per la nottata e raffreddato, nel mio pastrano. Col piccone tolsi la tagliola e me ne tornai mogio a casa. È stata una disfatta psicologica. Ora lascio che i cinghiali facciano del mio campo scempio e scorribande. Si divertono così. A mie spese.
Adriano Mor
Caionvico
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