Il difficile ruolo dei praticanti avvocati
Le scrivo con la speranza di informare lei e tutti i lettori del Giornale di Brescia del difficile ruolo di noi praticanti avvocati. Ho frequentato la facoltà di Giurisprudenza a Brescia, mi sono laureata in corso, con una media direi molto buona e un altrettanto soddisfacente voto di laurea; nel corso del mio percorso di studi, ho iniziato a lavorare come assistente bagnanti e istruttore di nuoto per una società sportiva bresciana, felice di portare a casa il mio gruzzoletto senza continuare a pesare sui miei genitori. Decido di iniziare la pratica forense prima di laurearmi, in modo da essere già abbastanza edotta sui miei compiti al momento dell’iscrizione all’albo dei praticanti avvocati e trovo uno studio che mi accoglie; la pratica è molto impegnativa (e gratis), non ho orari di rientro a casa e, avendo anche il mio lavoro in piscina, capita spesso che le mie pause pranzo o le mie serate siano anch’esse di lavoro, al quale aggiungo saltuariamente il lavoretto da baby-sitter. Dopo 6 mesi di pratica, noi possiamo abilitarci e passare da «praticante semplice» a «praticante abilitato», in modo tale da sostituire il nostro Dominus in udienza e, quindi, entrare proprio nel vivo della nostra futura carriera; e, sicuramente, è una cosa molto interessante, utile e significativa. Se non fosse, però, che la clausola per diventare praticante abilitato è di non aver alcun contratto di lavoro dipendente; non so spiegare il motivo di ciò, ma per me significherebbe perdere quei 400 €
mensili che a 24 anni mi rendono un po’ più indipendente dai miei genitori, in quanto l’abilitazione non comporta una remunerazione. A mio avviso, in realtà, credo che questa clausola sia da ricondurre a una norma del Codice deontologico forense, la quale fa riferimento al decoro della professione e della classe forense e, personalmente, sono sconcertata per l’esistenza, nel 2016, di una norma così dispregiativa e di tale bassezza; io trovo molto più decoroso un ragazzo che ha un lavoro, che guadagna e che, contemporaneamente, svolge la pratica per diventare quello che ha sempre voluto, perché si crea la sua indipendenza, ha la sua entrata mensile, di quei praticanti che, invece, scaldano la sedia perché devono fare 18 mesi di pratica, tornano a casa e non fanno nulla e dipendono, ancora, dai genitori. Sono, evidentemente, necessari dei cambiamenti, perché siamo praticanti, non siamo «zerbini» e, soprattutto, perché lavoriamo dalle 8 alle 12 ore tutti i giorni, scrivendo atti, andando in Tribunale, svolgendo anche il ruolo di segretari di studio, il tutto, nella maggior parte dei casi, senza vedere 1 € a fine mese. Qual è il nostro futuro? Una praticante che intacca il decoro della classe forense. // Lettera firmataRiproduzione riservata © Giornale di Brescia
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