Il caso Serle e le parole giuste da usare

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Chiedo ospitalità per fare alcune considerazioni sugli articoli apparsi nei giorni scorsi su questo giornale e su altri quotidiani, sia locali che nazionali, aventi per oggetto la vicenda ormai nota come il «Caso Serle». Sono stato sindaco di questo paese per due mandati negli anni a cavallo del 2000. Faccio riferimento in particolare alle cronache ed ai commenti inerenti le motivazioni della sentenza di condanna del mio concittadino Mirco Franzoni. Fin dall’epoca dei fatti del dicembre 2013 mi ero ripromesso di non intervenire sulla vicenda, convinto che di fronte alla morte sia buona cosa misurare le parole se non si ha qualcosa da dire che valga più del silenzio, prezioso ausilio per utili riflessioni. Ma di fronte a certi titoli sparati in prima pagina non posso più tacere: quali che siano le responsabilità, da verificare e provare, ritengo inaccettabile che si arrivi inopinatamente a criminalizzare in questo modo una persona e un intero paese semplicemente perché l’una ritenuta «colpevole» di aver difeso la sua famiglia e la sua casa, l’altro perché la sostiene e ne prende le parti conoscendola come persona degna e perbene. Come si può accomunare la vicenda del mio compaesano con i fatti di questi giorni a Macerata? Come è possibile (ed è anche per questo che non è più possibile stare zitti) arrivare a dire che il nostro è «un paese di pistoleri» dove «è lecito sparare e per un ladro vige la corda al collo» mettendo sullo stesso piano quanto successo a Serle con la follia demenziale di un mitomane esaltato, mistificando irresponsabilmente la realtà dei fatti? Al netto di altre considerazioni: quella sera di dicembre di quattro anni fa chi era fuori posto? Il ladro che ti profana la casa o chi la difende? Certamente se il ladro fosse stato a casa sua e - nel caso specifico, anche nel suo Paese d’origine - nessuno si sarebbe mai sognato di andarlo a cercare e tantomeno di porre fine alla sua vita. Se poi, anziché scegliere o adattarsi ad un lavoro onesto ancorché duro e faticoso, costui ha preferito la strada più comoda del furto e della rapina ai danni proprio di chi si guadagna da vivere col sudore della fronte, non poteva non mettere nel conto tutte le possibili conseguenze (non certo volute o premeditate da Mirco Franzoni, a sua volta coinvolto suo malgrado). Detto brutalmente, trattasi di «incidente sul lavoro» per chi, come attività lavorativa, fa il ladro. Circa il riferimento al retroterra socio-culturale che condiziona il comportamento delle persone, scopriamo l’acqua calda: per chi, dove e quando ciò non avviene? Si tratta di vedere se è in positivo o meno: dire che quello serlese è giustizialista e omertoso oltre che offensivo è falso. A chi parla (ma sarebbe più corretto dire straparla) di giustizialismo e omertà (del tipo che è regola in altre parti d’Italia) chiedo che ne venga fatto un solo esempio preciso (con nomi, dati e circostanze) riguardante la storia recente e passata di Serie: a parte l’episodio in questione, quando mai ci sono stati fatti di sangue, omicidi o regolamenti di conti? Purtroppo, al contrario, ci sono stati tanti infortuni sul lavoro, quello vero e faticoso, di chi si alza ogni mattina per guadagnarsi il pane. Da sempre, fors’anche al limite dell’ingenuità, siamo per la giustizia, quella vera dove vige l’elementare regola del vivere civile del rispetto reciproco, quella che considera gli individui tutti uguali, con pari diritti e pari doveri e dove, soprattutto, ogni diritto viene dopo il corrispondente dovere interamente compiuto. È vero, una vita umana è venuta meno, ma un’altra è segnata per sempre. Vogliamo considerare la vicenda anche per le conseguenze devastanti che ha avuto sulla vita di Mirco? Da quel giorno un’esistenza stravolta con un fardello che lo opprimerà come un macigno ogni giorno, per tutti i giorni della sua vita. Per non parlare delle spese, legali e non, da sostenere. C’è stato chi ha teorizzato che spesso «la gente non si rende conto di ciò che dice e che fa», ma questo può valere anche per tutti coloro che arrivano a sostenere le cose - a mio avviso gravissime - dette sul nostro paese. Questo probabilmente succede anche perché la gente ha dei cattivi maestri, per una sempre più diffusa tendenza - da parte dei mezzi di comunicazione - alla enfatizzazione mediatica alla ricerca della visibilità e della facile pubblicità o solo per vendere qualche copia di giornale in più: sedicenti esperti, politicanti di tutte le risme, venditori di fumo che, ospiti di stucchevoli programmi televisivi, giocano a chi la spara più grossa, favorendo così colpevoli strumentalizzazioni demagogiche. In un mondo che ha smarrito ogni valore morale, dove di legale pare sia rimasta solo l’ora (per giunta soltanto per un periodo dell’anno) dove tutti i santi giorni assistiamo a scandali di ogni genere, all’autoassoluzione dei colpevoli a tutti i livelli della società e delle istituzioni, dove purtroppo, come qualcuno ha detto «tutto è falso e il falso è tutto», risulta davvero difficile accettare prediche da pulpiti poco qualificati per farle. A chi ci suggerisce una nuova cartellonistica che illustri il nostro paese, va detto che c’è già da tempo: «Serle, uno dei 5000 Piccoli Comuni della Grande Italia - Comune d’Europa». Chi ci vuol venire in pace e con il dovuto rispetto per le persone, le cose ed i luoghi è benvenuto: rispettare per essere rispettati. Diversamente ognuno resti pure dov’è: ce ne faremo una ragione. Lasciamo che la giustizia faccia il suo corso, sperando che sia giustizia vera: quella che non confonde chi offende con chi si difende dalle offese, liberando finalmente le persone e la loro comunità di appartenenza da una inaccettabile gogna mediatica. Per il resto, a volte, la miglior musica è il silenzio.

// Oliviero Nicolini
già sindaco di Serle
Gentile Nicolini, comprendo e condivido il no alle fin troppo facili generalizzazioni, ma con altrettanta forza respingo la sua sconcertante tesi dell’«infortunio sul lavoro». No, così facendo lei offende coloro che sul lavoro perdono dita, gambe, la vita propria, quella di un genitore, oppure di un figlio. Quello del ladro non è un lavoro. E la sua fine non è stata un infortunio, ma un omicidio. Con tutte le possibili attenuanti che hanno trovato e troveranno voce in tribunale nei prossimi gradi di giudizio. Comprendo anche le manifestazioni di solidarietà verso il suo concittadino e la sua famiglia. Ci mancherebbe. Ma per favore, usiamo le parole giuste: quello è stato un omicidio. (n.v.)

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