Il carnevale e il gioco delle apparenze
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Vetrine allestite per il carnevale con maschere, parrucche, costumi, stelle filanti e paillettes. Irrompe all’improvviso un mondo stravagante, grottesco e goliardico, da pura regia felliniana, parallelo a quello di un quotidiano normativo, sobrio e condizionante. Questo periodo transitivo consente di travolgere l’ordine sociale e le regole comuni e la maschera, simbolo assoluto, rispecchia, tra il solare e il tenebroso, la natura del genere umano in quel temibile gioco delle apparenze tanto caro a Pirandello.
Dall’era preistorica in poi, la maschera è stata indossata in vari rituali, nelle danze propiziatorie, trasformata nelle feste baccanali, indossata dagli attori del teatro greco e romano e della Commedia dell’arte. La parola greca «prosopon» e quella latina «persona-ae» designavano la maschera dell’attore e hanno dato origine al termine italiano «persona». L’etimologia rivela un nesso indissolubile tra l’essere e l’apparire e il significato apotropaico della maschera è riconosciuto in molte tribù dove lo sciamano o il capo gruppo, con il viso coperto o pitturato, può raggiungere dimensioni soprannaturali e modificare perfino la realtà. Chi indossa una maschera assume, secondo alcune credenze, le caratteristiche del volto irreale rappresentato. Il rivelarsi o il nascondersi dimostrano l’impossibilità di sondare le profondità della mente umana, di capirne i fragili meccanismi, le aberranti contraddizioni e gli slanci sublimi. Lo stesso linguaggio, veicolo del pensiero, diventa una copertura fonetica, con parole impropriamente usate, svilite, diventate armi sottili, taglienti o inconcludenti.
Nell’epoca medievale, nelle corti reali o nella tradizione nobiliare ottocentesca, per dare sfogo agli istinti repressi, i balli in maschera facevano affiorare intrighi amorosi, delitti, accordi clandestini e miracolose rivelazioni. Oscar Wilde affermava paradossalmente: «Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero». Dietro la maschera, la mente si disinibisce, si sciolgono i nodi e la verità affiora. Volti nudi modificati solo da smorfie sono diventate maschere naturali e manifesti famosi come quello di Einstein con la lingua fuori a beffeggiare ogni cosa saputa, le labbra a cuore di Marilyn nel sintetizzare una sensualità femminile deliziosamente provocatoria o gli occhi sbarrati e i baffi a forca di Dalì nel rammentare i sogni surrealisti del pittore. Espressione di un’idea confessata o celata, la maschera può diventare un’ulteriore condizionamento, riscontrabile nel giudizio degli altri abituati a interpretare e a etichettare ogni comportamento.
Così per Erasmo da Rotterdam «tutta la vita umana non è se non una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa, e continua nella parte, finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico».
Ma lasciamo a Friedrich Nietzsche l’ultima dovuta parola quando, nella sua finezza d’interpretazione, dichiara che «esistono spiriti liberi, audaci, che vorrebbero nascondere e negare di essere cuori infranti, superbi, immedicabili e talvolta la follia stessa è la maschera per un sapere infelice troppo certo». Vivere nella pienezza di sé comporta una sofferta lotta interna e esterna e occorre una vigilanza continua per difendere ciò che si vuole veramente essere, al di là delle luci e degli abissi della conoscenza.
Giulia Deon
Lonato del Garda
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