I giovani, la meritocrazia, la paura del futuro
La paura del futuro. Ecco cosa attanaglia sempre di più i ragazzi della mia età. Sapere che ti impegni una vita a studiare, ad ottenere risultati, a dare soddisfazioni ai genitori ma poi tutto svanisce in una nuvola di fumo, perché c'è sempre chi, leggendo il tuo curriculum, ti dirà: «Le faremo sapere», «Ci facciamo sentire noi», «Ci dispiace ma adesso non stiamo assumendo». Quando apro il giornale, o guardo un tg, e sento che il tasso di disoccupazione giovanile, negli ultimi anni, è triplicato, non riesco ad essere ottimista sul mio futuro, anzi mi fa venire voglia di fare la valigia ed andare all'estero. Ma perché un ragazzo, oggi, è costretto ad abbandonare famiglia ed amici, per trovare un lavoro quantomeno dignitoso? Perché tanti ragazzi della mia età oggi non credono di avere un futuro restando in Italia? Perché da tanti anni ormai in questo Paese, tante persone hanno dimenticato cosa sia la «meritocrazia».
Alla voce «Meritocrazia» il dizionario dice questo: è una forma di governo dove le cariche amministrative, le cariche pubbliche e qualsiasi ruolo che richieda responsabilità nei confronti degli altri, è affidata secondo criteri di merito e non di appartenenza lobbistica, familiare (nepotismo e in senso allargato clientelismo) o di casta economica (oligarchia).
Ecco, in Italia il problema è proprio questo: la meritocrazia, se è mai esistita, ormai non esiste più. Perché nel nostro Paese, se non sei un «figlio di (papà)», non troverai mai lavoro, perché lui lo trova sempre prima di te (e i casi di Parentopoli negli atenei italiani, negli ospedali e nella pubblica amministrazione sono un esempio lampante di questo malcostume), ma sulle «conoscenze».
Negli ultimi anni si è provato a cambiare tante cose (più concorsi pubblici blindati, più numeri chiusi negli atenei, più controllo sulle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni), ma non è servito a molto, perché per capire che le cose non cambieranno mai, basta accendere il televisore, vedere un programma di attualità e scoprire che nella metà delle Università italiane ci sono intere famiglie che ricoprono ruoli di professori e ricercatori. Stessa cosa per gli ospedali, che vedono spesso parenti di primari che sono a loro volta medici nello stesso ospedale, se non nello stesso reparto, e magari vivono di luce riflessa grazie alla bravura del parente di turno, quando però non meritano il ruolo che ricoprono.
Non mi soffermo neanche sulle pubbliche amministrazioni perché non basterebbero 20 pagine per descrivere i favoritismi che si snodano negli organi statali. Una delle ultime «invenzioni» per evitare la malsana abitudine italiana di favorire parenti e amici, è stata presa in considerazione dal Ministero dell'istruzione, che per i test d'ingresso alle specialistiche delle facoltà di Medicina, ha ben pensato di creare un test non più regionale, o comunque gestito dalla singola Università, ma un concorso a livello nazionale, con l'inevitabile conseguenza che, se non hai voti propriamente brillanti o non convinci la commissione all'orale, dalla facoltà di Brescia ti possono sbattere a fare la specialistica dall'altra parte d'Italia. Sono abbastanza sicura che, come tutte le cose in Italia, fatta la legge, si può sempre trovare il modo di aggirarla.
Chiunque provi a creare un circuito di meritocrazia viene ostacolato, perché creerebbe un problema a quelle persone che vedrebbero i propri figli, solitamente mai meritevoli, impossibilitati a fare una carriera sfavillante ai vertici delle istituzioni (chissà perché i figli dei politici o diventano politici o diventano manager internazionali?) o comunque in posti di prestigio.
Stesso motivo per cui ancora ci arrabbiamo quando in televisione si parla di crisi e poi scopriamo i finanziamenti illeciti ai partiti, gonfiati per milioni di euro, o vediamo un politico dormire beatamente in Parlamento (ma saranno così comode le sedie di Montecitorio?) ma continuiamo comunque a votare gente che millanta restituzioni di tasse già pagate, tagli di stipendi e di pensioni d'oro ai parlamentari, salvo poi, ad un mese dalle votazioni, trovarsi a non avere ancora un governo stabile ed essere derisi dal mondo.
Che poi, riflettendoci, ma un parlamentare, con tutti i privilegi di cui gode senza fare grandi sforzi, è veramente così scemo da votare una legge per auto-tagliarsi lo stipendio? Ma sarebbe come chiedere ad un vegetariano di fare il rappresentante di salami!
In tutto ciò, chi invece cerca di crearsi un futuro solo contando sulle proprie capacità, spesse volte deve andare all'estero per mettere in pratica quello che sa, frutto di anni di studio, di impegno e di sacrifici. La chiamano fuga di cervelli. Banalmente, in tanti credono si tratti solo di una questione meramente economica, di poco rilievo. Non sanno che, dietro un neo laureato che decide di trasferirsi all'estero per cercare di costruirsi un futuro, ci sono famiglie che si rompono, legami che si spezzano a causa della distanza e ulteriori sacrifici per costruirti una vita in un Paese che non è il tuo, che non sempre ti accoglie benevolmente, che magari ti snobba pure. Basterebbe veramente poco per rendere tutto migliore, per tenere in Italia ricercatori che, un domani, con le loro scoperte, renderanno onore ad un Paese non loro, rimpiangendo forse di non aver potuto rendere gloria all'Italia.
Quando sento parlare i miei coetanei lo sconforto è enorme, in pochi credono di riuscire a trovare un lavoro che sia attinente al percorso di studi fatto, però si accontentano anche di iniziare con un altro lavoro, per fare esperienza. Ognuno di noi fatica ad immaginare cosa lo attende dopo la laurea, e questo non è giusto, perché nessuno dovrebbe avere paura del proprio futuro.
Veronica Calabretta - Studente a Brescia. 22 anni, di Castelvetro (PC)
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