I dilemmi di Fermi e la lezione del pensiero critico

Lettere al direttore
Lettere al direttore
AA

Nelle ultime settimane il dibattito nazionale sul rapporto fra scienza, etica e storia si è acceso a partire dall’intervento di Carlo Rovelli sul Corriere della Sera in occasione dell’anniversario di Hiroshima e Nagasaki. Rovelli ha invitato a interrogarsi sul ruolo morale degli scienziati - Enrico Fermi in primis - sia per la sua adesione iniziale al fascismo sia per la partecipazione al Progetto Manhattan. Come Fondazione Luigi Micheletti, che a Brescia custodisce la memoria storica dell’innovazione scientifica, industriale e tecnologica, sentiamo la responsabilità di intervenire su questo dibattito, offrendo un contributo. Il libro di David N. Schwartz, Enrico Fermi: The Last Man Who Knew Everything, ci restituisce l’immagine di uno scienziato di straordinaria lucidità e pragmatismo, capace di incidere profondamente nella storia della fisica. Con il gruppo dei «ragazzi di via Panisperna» - Amaldi, Rasetti, Segrè, Pontecorvo - Fermi aprì la strada alla fisica nucleare moderna, cambiando letteralmente il corso della storia. Sì, Fermi fu iscritto al Partito Nazionale Fascista, come la maggioranza degli scienziati universitari di quegli anni, ma la sua non fu mai una militanza ideologica. Dopo aver ricevuto il Premio Nobel nel 1938 - per la scoperta dei neutroni lenti, passo fondamentale verso il reattore nucleare - decise di non tornare in Italia, in gran parte per proteggere la moglie Laura Capon dalle Leggi razziali. Più che un esilio forzato fu scelta dolorosa ma consapevole. La sua partecipazione al Progetto Manhattan va letta nel contesto: nel 1942 la minaccia di una bomba nazista era considerata reale e imminente. Molti fisici europei esuli, Fermi compreso, si sentirono moralmente obbligati a contribuire. Discutere oggi se quella scelta fu giusta o sbagliata è utile, ma solo se si riconosce la differenza tra le condizioni di allora e la nostra prospettiva attuale. Dopo la guerra Fermi si dedicò quasi esclusivamente alla ricerca fondamentale e alla formazione dei giovani. Difese pubblicamente Robert Oppenheimer durante il processo maccartista e continuò a lavorare fino agli ultimi mesi, nonostante la malattia. È verosimile che il cancro che lo portò via a 53 anni sia stato anche conseguenza dell’esposizione prolungata a radiazioni e materiali radioattivi nelle sue ricerche pionieristiche: un sacrificio personale che ricorda quanto la scienza di frontiera fosse, allora, anche fisicamente rischiosa. Oggi, in un mondo attraversato da nuove tensioni internazionali e minacce di proliferazione nucleare, ricordare Enrico Fermi significa riflettere su quanto la scienza possa essere al servizio del bene comune, ma anche su quanto sia necessario accompagnarla con responsabilità etica e con istituzioni democratiche solide. Brescia, città di industria e innovazione, conosce bene l’impatto che il progresso scientifico può avere sulla società. La Fondazione Micheletti vuole fare in modo che il nome di Fermi sia legato non solo alla potenza distruttiva della bomba, ma anche all’energia civile, alla medicina nucleare, alla formazione di generazioni di fisici che hanno fatto avanzare la conoscenza. Ricordare Fermi oggi non significa assolvere né condannare, ma insegnare a pensare criticamente: la scienza è una delle più grandi risorse dell’umanità, ma resta nelle mani degli uomini il compito di guidarne le conseguenze.

Ettore Fermi
Presidente Fondazione Luigi Micheletti Brescia

Caro Ettore, lo premettiamo subito, come nelle controindicazioni sul bugiardino dei farmaci: la sua lettera è inadatta a chi fa prevalere impulsività e semplicismo, rifiutandosi di vagliare gli avvenimenti secondo ragione. Per quanti invece accettano un confronto schietto, è indubbio che il giudizio su Fermi non può prescindere dal contesto in cui egli viveva e da quale fessura di porta osservava una realtà ch’è sempre troppo vasta per esser colta nel complesso. Nel comprendere quale decisione fosse eticamente giusta facciamo fatica oggi, che pure abbiamo il vantaggio di conoscere dritto e rovescio della storia, figuriamoci chi vi era immerso mani e testa. Proprio per questo concordiamo appieno con il finale della sua lettera: la vicenda di Fermi è utile a noi - figli di questo tempo, come egli lo fu del suo - spronandoci a pensare criticamente e rammentando che i bordi della realtà sono sempre frastagliati ed esente da rischi non vi è alcuna scelta. (g. bar.)

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato