I bimbi nel bosco, quei genitori e noi che ci ragioniamo

Tanti anni fa uscì un film dal titolo esemplare «Il ragazzo selvaggio», «L’Enfant sauvage», un bellissimo film del 1970 diretto e interpretato da François Truffaut. Come suggerito dal mio manuale di Scienze Umane e Sociali, il film risultò utilissimo al livello didattico. Lo utilizzavo nel biennio per mostrare in classe, al Liceo di Scienze Umane, la differenza tra ciò che deve intendersi per mondo istituzionale e non-ovvero ciò che resta relegato ad un mondo asociale e selvaggio, rispetto ad un modo esistenziale fondato su convenzioni sociali. L’essere umano è per sua natura essere sociale, l’uomo aristotelico è animale sociale. In quel film il linguaggio del bambino diviene simbolo di conoscenza, senza linguaggio non esiste socialità, regole sociali, condivisione. Cosa condivido se non conosco il tuo sistema di segni e simboli sociali? Esattamente ciò che avviene oggi, con soggetti che non conoscono le regole della convivenza umana, e non le vogliono conoscere. Victor, il ragazzo selvaggio piaceva moltissimo ai miei studenti, in lui si immedesimavano in quanto, anche loro, si sentivano esseri non ancora completamente autonomi o capaci di vivere in una società che le Scienze sociali presentano come complessa, iper-normata, istituzionalizzata e burocratica, tutte cose odiose per i giovani. Eppure quel ragazzo selvaggio era anche affascinante, come chi naviga in barca a vela e gira il mondo pagando solo le tesse di immatricolazione di una barca, o chi decide di videro in Abruzzo. Essendo per metà abruzzese da parte materna e metà cremonese, conosco bene la bellezza di quei luoghi incantevoli, che tanto mi hanno affascinato da bimba e ancora oggi mi fanno sognare. La famiglia che vive nei boschi abruzzesi, oggi al centro di accesi dibattiti e discussioni in tutta Italia, ha scelto di togliere i figli dalla società, esattamente come voleva il ginevrino Rousseau nel suo Emilio, il più grande pedagogista della storia. Come mai? Perché, secondo Rousseau, è la società che fa ammalare i nostri figli, privandoli della loro libertà e bellezza interiore, li diseduca, in quanto solo la natura sa educare in forma negativa e indiretta, senza imporre nulla. Solo con l’osservazione spontanea Emilio si auto-educa fuori dalla società inetta, perché educa attraverso i suoi segni, spontanei mai costrittivi ma naturali. Siamo nel Settecento, e guardate un po’ che genio questo pedagogista, aveva capito tutto, e resta ancora oggi con la sua opera «Il contratto sociale», uno dei massimi filosofi dell’educazione, oltre che anticipatore della psicologia dell’età evolutiva. Cosa fare quindi? Mandiamo i carabinieri a casa di una famiglia che ha scelto per i propri figli di prediligere un bosco alla diossina e al cemento, o il suono delle foglie che cadono a terra mosse dal vento, ai manuali di chimica e fisica di una scuola? Possiamo obbligare quel padre e assoggettarlo ad una regolamentazione normativa che prevede l’obbligo genitoriale del vivere nella civitas del cittadino? Cittadino o persona? Il cittadino di Rousseau era destinato, come noi oggi, a sottomettersi ad un potere che lo renderà schiavo delle tasse, del lavoro e delle regole nauseabonde, a tratti incomprensibili, della società. La persona, invece, nasce libera, autonoma, può scegliere dove educare i propri figli. O no? Non è semplice rispondere, ma una risposta andrebbe data. Quando da bambina mia madre mi vestiva per andare a scuola mi diceva: «Muoviti, sbrigati devi andare a scuola. Devi». Io sentivo di dover sottostare a delle regole, ma capivo anche che quelle regole erano le medesime delle mie compagne non solo le mie, che grazie a quelle regole esistevano le strade, i medici che mi curavano quando mi ammalavo e tanti esseri uguali a me che iniziavo ad amare. Questa è la società, un mondo dove, insieme, con tanti sacrifici e difficoltà, si cresce, si lotta per migliorare con coraggio ci sia aiuta a vicenda, con amore. Tutto questo è compito della famiglia, l’educazione appunto, che deve trasmettere valori sociali. Anche a me piacerebbe vivere in un bosco, a chi non piacerebbe? Ma poi sento il desiderio di vivere con gli altri, aiutare gli altri e tornare nella mia città inquinata, rumorosa ma al tempo stesso degna di essere vissuta. Rousseau poi visse eccome in città, tutta la vita, non sempre in modo impeccabile. Sono certa che anche quella famiglia riuscirà a comprendere che, senza l’aiuto degli altri non possiamo vivere, non siamo nomadi chiuse in un bosco, e se abbiamo bisogno degli altri perché purtroppo i funghi possono anche essere tossici e velenosi, poi questi aiuti vanno restituiti agli altri. Condivisi con il nostro impegno sociale.
Carolina ManfrediniDocente di Filosofia e Scienze umane
Grazie Carolina, per averci «accompagnato» a... pensare. Che se c’è del buono, nella triste vicenda dei mille fari puntati su una casa nel bosco, è proprio lo spunto di riflessione che ciascuno di noi può trarre, dal non ritenere scontato nulla, dal ragionare sui significati di libertà, comunità, responsabilità. Una bravura, la sua, che sfiora vette da gigante se paragonata al pressapochismo con il quale alcuni colleghi giornalisti, politici e personaggi pubblici si sono distinti, facendo pressione sulla pancia, invece di appellarsi a ciò che ci rende pienamente umani: il cuore, la testa. (g. bar.)
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