Ettore e sua madre. Nei gesti semplici sta il vero eroismo

Lettere al direttore
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Il 26 aprile scorso a San Zeno Naviglio, ricorrevano 80 anni dall’accadimento di un fatto brutto. Un sogno di libertà che eppure restò per molti anni scomodo da ricordare. Ettore Bianchetti, ventottenne, era fra i sopravvissuti della campagna italiana di conquista della Russia iniziata nel 1941, e il Genio ferrovieri in cui era arruolato gli concedette una lunga licenza premio a casa. In licenza, durante una cena con amici in una trattoria, aveva preso un po’ di pasta dal piatto e l’aveva scagliata contro la grande immagine di Mussolini appesa al muro, dicendo «Tò, màja che l’è biànca!» (Tieni, mangia, già che è bianca!). La farina bianca era infatti una rarità. Venne denunciato da un testimone, nonostante l’Italia fosse ormai prossima alla resa finale, e appena rientrato in caserma fu arrestato e incarcerato. Dopo molti mesi di prigionia fu di nuovo salvo per miracolo, grazie a un bombardamento alleato su Canton Mombello. Fuggitivo e ricercato, riuscì a aderire alle Fiamme Verdi aiutato da un prete di Pavone Mella e, dopo un lungo periodo di clandestinità tra fossi e boscaglie, il 26 aprile 1945, con una pistola in mano, si avventò sulle scuole elementari di San Zeno, quartier generale degli ultimi aderenti alla Repubblica di Salò. I carri armati americani stavano salendo da Manerbio; il giorno prima, l’Italia era stata dichiarata libera dal nazifascismo, ma San Zeno di fatto non lo era ancora. Scavalcando un reticolato posto sul retro della scuola, Ettore cadde morto, perché un proiettile lo aveva già colpito alla testa, sparato da una mano alla quale non è mai stato dato un nome o si è preferito non darlo. Sono in pochi a sapere che la madre di Ettore, nei mesi successivi, si adoperò con grande dignità affinché si potesse ricominciare e iniziare a costruire un futuro di riappacificazione tra i sanzenesi. Una riappacificazione di cui l’Italia intera sembra avere ancora parecchio bisogno. Prese le distanze dal pestaggio a sangue vendicativo che venne riservato a chi aveva denunciato il figlio tanto tempo prima e compì altri gesti simbolici. Un sindaco lungimirante, negli anni successivi, denominò la contrada dove Ettore era nato Via Ettore Bianchetti. Altrimenti, probabilmente nessuno ne saprebbe più nulla. Invece, Ettore e la sua storia sono in qualche modo ancora vivi a San Zeno Naviglio. Io credo che Ettore e sua madre, con i loro gesti semplici, di gente semplice, non abbiano incarnato altro che questa consapevolezza. Credo che oggi stiano continuando a raccontarcelo. Tanto più nel giorno dell’ottantesimo anniversario di quei fatti. Che noi, invece, stavamo per dimenticarci.

Gianmario Gerardi
San Zeno Naviglio

Caro Gianmario, questa lettera dovremmo appenderla sui muri, leggerla nelle scuole, gridarla per le strade. Specialmente la parte finale. Grazie. Un grazie monumentale, per averci aiutato a ricordare. Un paio di giorni fa, scrivendo della Strage di piazza Loggia, nelle pagine di cronaca sono state riportate le parole dello storico Mimmo Franzinelli, che ha elogiato Brescia poiché ha saputo fare «scuola di memoria». Memoria è un vocabolo che preferiamo declinare al plurale, memorie, essendo molte le vicende che intrecciate assieme costituiscono il basamento sul quale poggiamo le fondamenta del nostro consorzio civile. E oggi, idealmente, poniamo residenza a San Zeno, in via Bianchetti. Non è la data esatta dell’anniversario, è vero, ma ogni giorno è giusto per celebrare chi ha saputo lottare per la libertà e perdonare, come Ettore e sua madre. (g. bar.)

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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