Diavoli rossi e Villaggio azzurro a Ghedi
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62 anni fa, iniziava, a Ghedi, l’arrivo delle famiglie dei militari della base aerea, rimessa in funzione dopo la 2ª Guerra mondiale e diventata sede, nel 1952, del 6° stormo «Diavoli Rossi». Luogo d’insediamento dei militari e delle loro famiglie, fu il «Villaggio azzurro». Diventato, successivamente, nella vulgata ghedese semplicemente «il villaggio». Nel febbraio del 1954 ne avveniva l’inaugurazione ufficiale: la vedova di un ufficiale dell’aeronautica, morto durante la guerra, tagliò il nastro all’ingresso di via Francesco Baracca. Anche il nome della via non fu dato a caso. Alla presenza dell’allora sindaco Giannino Montagna e con la benedizione dell’Arciprete Don Gottardi, sotto l’occhio vigile del comandante dell’Aerobase, si procedette al battesimo del nuovo insediamento. Il villaggio fu realizzato dal Ministero della difesa per garantire alle famiglie degli specialisti (ufficiali e sottufficiali), in servizio presso il neonato aeroporto militare, una casa, in un periodo di grossa penuria di abitazioni. Per i ghedesi che in quegli anni si accingevano a vivere il passaggio da una economia contadina ad una industriale, «quelli del Villaggio Azzurro» rappresentarono, all’inizio del loro insediamento, una enclave di privilegiati: case con bagno e riscaldamento centrale, telefono, estate all’idroscalo di Desenzano, cinema gratis, la domenica, in aeroporto. In un paese in cui il sovraffollamento e la carenza di case e servizi, erano la regola, questo nuovo insediamento non poteva non assumere le caratteristiche di un qualcosa da guardare con profonda invidia. Tutta «gente» che veniva da fuori e quindi, l’impressione che nessun vantaggio arrivasse ai ghedesi, era molto forte. In realtà non era così. Gli influssi commerciali benefici si ebbero immediatamente. Già da subito questi militari consumarono il pane dei fornai di Ghedi, acquistarono le scarpe e gli abiti dei commercianti ghedesi, ripararono le loro «Lambrette» dai meccanici di Ghedi, ecc. ecc. Questa ostilità, si manifestava, spesso, sul finire degli anni ’50, con sassaiole e scazzottate tra i «gnari» di via Palazzo, novelli epigoni dei «ragazzi della via Pal» e i figli dei «maresciai» (marescialli) residenti all’interno del «Villaggio Azzurro». La posizione decentrata, rispetto al resto delle altre case del paese e la cinta eretta a protezione del villaggio stesso, dava, anche fisicamente, all’insediamento, un aspetto di corpo estraneo. Inoltre, nessuno di questi nuovi arrivati parlava il dialetto e nessun ragazzo ghedese degli anni ’50 parlava, abitudinariamente, l’italiano. Le distanze culturali di partenza furono notevoli. Nei decenni successivi, dopo le profonde diffidenze iniziali, le cose si sono, rapidamente sistemate. Il benessere, figlio del boom economico, livellò le originarie differenze socio economiche e l’integrazione poté avere luogo. Grande aiuto all’integrazione di questi nuovi ghedesi con il resto del paese, fu dato dai matrimoni «misti». Si sa, all’amore non si comanda, e molte ragazze ghedesi finirono maritate con questi sottufficiali che venivano da «fuori». Luogo d’incontro, la domenica pomeriggio, la vecchia balera «Ai Pioppi». Il «Villaggio Azzurro» ha avuto un impatto decisivo sulla composizione sociale e demografica del comune di Ghedi. Nessun comune della Bassa, dal 1950 al 2014, ha avuto un’incremento demografico come quello che si qui è verificato. Dal punto di vista sociologico si è andati ad un profondo allargamento di quella classe di dipendenti statali con stipendio medio che, ancor oggi rappresenta, percentualmente, la fetta più importante della popolazione attiva. In questi circa 60 anni post bellici l’aeroporto militare ha rappresentato l’«azienda» che ha distribuito e continua a distribuire il maggior numero di stipendi e posti di lavoro di tutto il paese. Non credo che nella Bassa Bresciana, esista un datore di lavoro così grande. Oggi, il «Villaggio Azzurro», è un luogo di residenza non più di tanto invidiato, quasi invisibile nell’assetto urbano ghedese, se non fosse per gli anacronistici cartelli gialli «zona militare, vietato l’accesso». Il nucleo storico dei primi sottufficiali, arrivati a Ghedi negli anni ’50 (Valente, Moneta, Lacchini, Guarino, Margonari, Rossetti, Bonato, Piazza, Stefanini, Geminiani, Minarelli, Medellin, Grillo, Ratti, Avarello, Santillo, Trigiani, Bencivenga, Bonati), appartiene, unitamente a quelli che a loro sono seguiti, ormai, alla storia di Ghedi né più né meno dei discendenti degli «antichi originari» iscritti nei registri della Republica Veneta (Lanfredi, Scalvini, Orizio, Lussignoli, Piardi, Moretti, Muchetti, Trivella, Bevilacqua, Tedoldi, Bonsignori). A fianco di quell’altra imponente immigrazione di agricoltori, operai agricoli e mandriani giunti a Ghedi nei primi decenni del ’900 dalla Val Trompia, Val Camonica, Val di Scalve e dal Veneto, a seguito della bonifica dei terreni agricoli a sud del paese. Il mix che ne è derivato ha determinato un nucleo di popolazione dalle caratteristiche culturali e sociali abbastanza singolari che hanno fatto di Ghedi, con i suoi quasi 20.000 abitanti, oltre che essere il 6° centro della Provincia, un paese in cui le tradizioni di origine delle famiglie sono rappresentative, in modo significativo, di tutte le Regioni d’Italia. Per un ghedese è normale avere nonni campani, pugliesi, laziali, siciliani, sardi o molisani. L’«ibridazione», continua anche ai nostri giorni. Oggi a fianco dei figli e nipoti dei primi abitanti del «Villaggio Azzurro», continua l’arrivo dal resto d’Italia di «nuovi ghedesi» che trovano lavoro, quali sottufficiali e soldati volontari (V.A.M), all’aeroporto militare e che alimenta la multi-culturalità del paese. Il sindaco stesso, non a caso, appartiene a questa storia: padre, sottufficiale di Latina e madre, figlia di agricoltori ghedesi. Ludovico Guarneri Ghedi
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