Di padre in figlio Quando il lavoro diventa eredità
Non ci sono informazioni che confermino un’ampia pratica di assunzioni di figli di dipendenti di Mediaset, né che questa sia una pratica aziendale. Anche così fosse non è merito di cui vantarsi, né colpa di cui pentirsi. Possiamo vantarci di un esempio in casa di cui, fino a poco tempo fa ne andavamo fieri: la nostra Om, nata nel 1899 e che produsse addirittura una costosa automobile nel 1919. I figli dei dipendenti ne sentivano parlare dal papà in casa e, negli anni successivi, già quasi ne erano diventati parte frequentando le colonie aziendali marine e montane o il meraviglioso centro ricreativo di Manerba. Favorire, nell’assunzione, i figli di un dipendente se era quasi un segno di gratitudine verso l’operaio era, soprattutto, una referenza utile, preziosa e gratuita per l’azienda. Negli anni in cui vi ho lavorato ho visto addirittura numerosi dipendenti da tre generazioni (prima di loro il nonno e il padre) e tanti arrivare al vertice, partendo dal corso aziendale. Una consolante storia che forse non c’è più.
Silvio Emilio CavalliCaro Silvio, il crinale tra favoritismo e (reciproca) opportunità è sottile e non si distingue facendo di tutta l’erba un fascio, bensì valutando caso per caso. Premesso ciò, l’essere figlio comporta sempre delle conseguenze: se positive oppure negative lo si scopre soltanto a consuntivo. Conosciamo esempi di prole schiacciata dal peso dei genitori ed altri che soltanto per natali fortunati hanno preso il volo. Il problema è che specie in Italia non è insolito definire «raccomandazione» ciò che nei fatti è soltanto una «segnalazione» o «referenza», finendo così con il confondere l’una dall’altra. La raccomandazione, è bene ricordarlo, ha due caratteristiche: il potere impositivo di chi la effettua e l’assenza di merito per chi ne beneficia. In quel caso, non c’è giustificazione, né pudore che tenga. (g. bar.)
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