Così si impara a piangere senza far rumore
AA
«E ci furono braccia ad accogliere come quando uscisti alla luce...E gridava il ventre come per un parto.. E ci furono donne, annota il vangelo, a guardare da lontano. Anche qui, nel reparto dei camici bianchi vedi per un attimo i medici sostare da lontano e guardare con occhi straziati il compianto di una madre e di un padre per un bambino arreso, per questa nuova deposizione dalla croce». Come hai fatto a sopravvivre? Già, come ho fatto a sopravvivere? E se questa è sopravvivenza di che cosa si nutre, visto che da quando mia figlia/o è morta nulla ha più il senso di prima, niente vale realmente la pena. Eppure questa è una domanda chiave che ti lascia sommersa dai sensi di colpa, la variante peggiore: «io non ce l’avrei fatta a sopravvivere, sei stata brava...». Odio puro verso i «normali» che ti «vomitano» addosso queste frasi. Come a dirti che, se sei ancora viva, vuol dire che non soffri abbastanza, che a tua figlia/o non ci tenevi poi tanto, che loro invece si che sarebbero morti di dolore. Cosa ne sanno loro? Cosa ne sanno dei fratelli rimasti qui impietriti, spaventati al pensiero che tu possa scegliere di andartene, di seguirla, nel suo altrove? Cosa ne sanno di tuo marito, suo padre, che si aggrappa a te singhiozzando, perché sei sempre stata le sue fondamenta, come puoi spiegargli che ora non c’è più nulla a cui appoggiarsi? Così si va avanti, facendo finta di niente, si impara a piangere senza fare nessun rumore, senza neppure tirare su col naso... Come ho fatto a sopravvivere... non sono affatto sicura di essere sopravvisuta forse riesco solo a tenere in piedi una buona imitazione. Risposte non ne ho... ma... mi trascino dietro una valigia stracolma di domande... le uso per la strada, quando incrocio i conoscenti che mi «molestano» con frasi impacciate e imbarazzanti per loro, non per me... «Oh ti trovo meglio» oppure a un «tutto bene? come stai?» replico «vuoi veramente saperlo o far parte dei convenevoli?». Ecco faccio proprio così, mi basta frugare nella valigia delle domande che mi trascino dietro, come una palla al piede da galeotto... sono rabbiosa e antipatica. È come se avessi acquisito con la morte di mia figlia una specie di porto d’armi che mi permette di sparare a zero sugli «imbecilli»... una specie di licenza di uccidere la stupidità, come se il mio lutto me ne desse l’avallo. Poi però un po’ mi dispiace. Loro i «normali» sono spaventati a morte, non sono pronti, non sono capaci di reggere il lutto degli altri, meno che mai di affrontare neppure l’idea che ti possa morire un figlio/a, di tutti i lutti il più innaturale, il più lancinante. Così anch’io indosso spesso la mia maschera prima di uscire per strada e sto attenta a non incontrare nessuno... È impossibile spiegare un dolore così grande. Per noi donne è diverso, e spesso i papà fanno fatica a comprenderlo pur vivendo lo stesso dolore ma dei modi di affrontarlo o con cui difenderci decisamente diversi, a volte incomprendibili all’altro... Ma io più di così... non so soffrire... È solo l’amore che ci fa guardare avanti, ci fa sentire vivi, e forse anche l’amore è solo una faccia, la più terribile dell’amore... io penso che finchè amiamo , la nostra vita ha un senso... ricordo con terrore quei brevi attimi in cui dopo la morte di mia figlia mi sentii il cuore pietrificato e non provavo niente, c’ero solo io, mia figlia e il mio dolore... Parlando dei nostri figli che ci hanno lasciato spesso ci sentiamo in difficoltà, vorremmo parlare di loro al tempo presente perché li sentiamo vivi e parte di noi , ma notiamo che gli altri usano tranquillamente il tempo passato... Aspettare... ecco questo è lo stato d’animo e arriva un ricordo... Lei è all’ospedale fa freddo, la finestra leggermente aperta, fuori silenzio... arriva la voce di un bambino che chiama, non ricordo più se mamma o papà e lei esce dal torpore, apre gli occhi, non dice niente... chissà è finita per lei, è finito quel dolore, quella sofferenza... è il passato... Se mi guardo indietro certo che le cose sono cambiate... è nel profondo di noi che il dolore è intatto, intoccato, indelebile, inviolabile... è come se tutti i giorni portassimo un macigno sulle nostre spalle... con il tempo i nostri muscoli si rinforzano, ti abitui ad un lavoro pesante e quindi il peso ti sembra più sopportabile. Ma il macigno non ha perso un grammo del suo peso, sei solo tu, che ti sei abituato a portarlo... la mia visione del dolore una sorte di belva inferocita che va domata, in principio ci sovrasta e ha il controllo mentale e fisico. Giorno per giorno è una dura lotta per tenerlo a bada ed evitare che le ferite aumentino. Con l’andare del tempo riusciamo ad avere una gestione più o meno efficace, e forse la riuscita ultima sarebbe quella di domarlo definitivamente e addirittura coccolarcelo e prendercene cura. Insomma cercare di farci pace. Ognuno ha la sua belva ed ognuno di noi dimostrerà di essere un domatore più o meno capace... anche se il dolore come qualsiasi animale è, imprevedibile e quando meno te lo aspetti, si rivolta e ti ferisce di nuovo. A volte mi chiedo come sia possibile ancora vivere, come la vista di tanto dolore prima, e il suo ricordo dopo, non abbiano ferito mortalmente la mia anima annientandola. Eppure io sono qui, e sorrido guardando le sue foto e i suoi video. Strano l’essere madre... Non posso dire che mi manca un pezzo di me, perché una figlia permea tutto, lei era me. Sono calata nell’inferno con te. E tu a quel punto mi hai preso in braccio e mi hai restituito alla vita, io con te, ancora... Per sempre. La mamma di Diletta
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