Ciao cara mamma, quanto rammarico per le ultime ore

Lettere al direttore
AA
Ciao mamma, è un anno che te ne sei andata e il dolore non ci lascia mai. Scusa se ti abbiamo portato all’ospedale a morire sola e dimenticata ma, quando il medico di base ha detto che stavi perdendo troppi liquidi e che bisognava andare al Pronto soccorso, pensavamo di fare il tuo bene; purtroppo, da quando sei stata ricoverata in appoggio in Dermatologia, ma in carico al reparto Infettivi, dove non c’era posto, quel maledetto sabato notte, dopo nove ore di attesa al Pronto soccorso, sei entrata a far parte del mondo degli invisibili.
Il pomeriggio di domenica ti abbiamo visto, eri stanca e abbattuta ma lucida, però nessuno degli infermieri presenti ha saputo darci informazioni e, addirittura, abbiamo dovuto portarti da casa lo spray per la tua malattia respiratoria cronica perché nessuno te lo aveva somministrato e non era disponibile in reparto. Percorrendo il corridoio per raggiungere la tua stanza, ho sentito un infermiere dire: «Adesso mi tocca anche raccogliere la mer...», ho sperato non parlasse di te, invece no, parlava proprio di te, perché poco dopo è venuto al tuo letto ad eseguire la raccolta che tanto gli pesava.
Dopo la visita del pomeriggio, abbiamo telefonato al reparto Infettivi per chiedere che un medico venisse almeno a vederti; poco dopo, una gentile dottoressa ci ha richiamato per informarci che eri stabile, che ti avevano «aggiustato» la terapia e che il giorno dopo ti avrebbero «assorbito» agli infettivi, da dove ci avrebbero chiamato per spiegarci meglio la situazione. Da quel momento, più nessuna notizia: non abbiamo più sentito un medico, non uno, che ci abbia chiamato per avvisare del tuo stato di salute e della gravità della situazione; nessuno ci ha mai informato del rischio sepsi e della possibilità che tu ci lasciassi così velocemente: saremmo rimaste lì con te tutto il tempo ma «no, assolutamente, nessuno può stare in reparto».
Il lunedì, in tarda mattinata, abbiamo parlato al telefono con gli Infettivi e, tra un rimpallo di telefonate e l’altro, abbiamo intuito che nessuno aveva conoscenza del tuo caso, tanto che ci hanno gentilmente invitato a chiamare la Dermatologia, dove ci hanno liquidato molto sbrigativamente, riferendoci che tu eri tranquilla, non avevi febbre e che, «insomma, non state sempre a telefonare; tra poco, quando verranno a prendere la mamma dagli infetti, vi chiameranno e vi spiegheranno come sta...»; e infatti alle cinque del pomeriggio ci hanno chiamato per dirci di correre lì perché non avresti passato la notte, stavi morendo.
Quando siamo arrivati in reparto, eri già priva di conoscenza, imbottita di morfina, e anche di questa iniziativa nessuno ci aveva avvisato. Se avessi saputo che domenica era l’ultima volta che ti vedevo presente a te stessa, cosciente, ti avrei abbracciato forte forte, ti avrei stretta a me, salutata e rassicurata, detto qualche parola in più, senza la preoccupazione di stancarti troppo, ti avrei detto quanto ti volevo bene, ti avrei portato papà, di cui ti preoccupavi sempre, perché ti vedesse l’ultima volta.
I pensieri, da un anno, son
o sempre gli stessi: avrai sofferto tanto? Forse hai pensato che ti avessimo abbandonata? Nessuno si era premurato di metterti gli apparecchi acustici, senza i quali sentivi molto poco e magari non sei stata in grado di spiegarti e di rispondere alle domande; quante ore sei rimasta lì, in sofferenza, prima che qualcuno si accorgesse di te, che non volevi mai disturbare, non pretendevi niente, non facevi mai la voce grossa?
Sono consapevole che ormai tutti gli ospedali sono in sofferenza, che la carenza di personale è drammatica, ma queste difficoltà non possono prescindere dalla dignità umana. C’è una bella differenza tra crepare e morire, ci dovrebbe essere dignità anche nella morte: mamma, vorrei restituire la dignità di donna anziana che tu hai sempre avuto in vita e che ti è stata preclusa nelle tue ultime ore. Durante la tua agonia di ventisei ore, ti hanno messo su un materasso gonfiabile che continuava a sgonfiarsi, e quando chiamavo le infermiere per rimetterlo a posto, una di loro, evidentemente scocciata, mi ha detto: «Lei ha capito cosa sta succedendo? Ha capito che sua madre sta morendo? Se le fa impressione, può uscire». A poche ore dalla fine, viene fatta entrare la tirocinante per sentire com’è il respiro agonico di uno che sta per morire. Una dottoressa, poi, si è lasciata scappare che «proprio non sanno cosa sia successo in dermatologia», lasciandoci intendere che forse nessuno si stava occupando di te.
Quegli stessi medici che per giorni non ci hanno fatto sapere niente di te, poi sono venuti più volte al tuo letto di morte a dirci che quando sei arrivata da loro ormai eri tachicardica e dispnoica, che loro non avrebbero potuto più fare niente, che comunque avevi molte fragilità e saresti morta qualche mese dopo; sai che consolazione. Nonostante tutto, a noi restano il tuo sorriso timido, la tua generosità, la tua onestà, la tua discrezione, la tua umiltà, la tua voglia di vivere, il tuo ottimismo. Sarai sempre un esempio per noi e la nostra guida.
Anna Castellari
Cara Anna,
parole di apprezzamento sul lavoro negli ospedali ne pubblichiamo quasi ogni giorno. Nessuna realtà tuttavia è una linea liscia, senza spigoli o inciampi, e quanto racconta ne è una triste conferma.
A farci apprezzare la sua lettera è tuttavia la sensibilità che dimostra, l’ammissione di una fragilità così pienamente umana e che si traduce nei dubbi di chiunque si trovi in una situazione simile alla vostra.
Abbiamo fatto abbastanza? Potevamo fare di più? Com’è stato possibile non aver colto l’attimo e compreso che quel momento poteva essere l’ultimo? Quanto pagheremmo per tornare indietro e congedarci al meglio, non far scivolar tra le dita ciò che importa davvero in un’esistenza...
Lo scriviamo a lei per ricordarlo a noi stessi e a quanti una mamma, un papà, un parente prossimo o un’amica, un amico caro ancora ce l’hanno. Che a volte abbiamo mille scrupoli o ci affanniamo per un nonnulla, dimenticando ciò che veramente conta.
Da ultimo, non per pietismo, bensì con convinzione, le scriviamo che chi ci vuole bene conosce i sentimenti che proviamo, pur se non siamo solleciti nell’esprimerli. Di questo sia certa e non porti cruccio. (g. bar.)
P.S. Quando una persona muore si suole dire: «Ha trovato la pace». Dobbiamo imparare a trovarla anche noi. Un abbraccio.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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