Badiucao, la mostra a S. Giulia e i giovani artisti italiani assenti

Badiucao, un tentativo improvvisato, il solito meccanismo perverso dell’esterofilia. Dopo tanta aspettativa sono finalmente andato a vedere la mostra dell’artista Badiucao e nonostante le buone intenzioni sono rimasto veramente deluso. Sinceramente non mi aspettavo di dover, per obblighi morali, affrontare un tema che da parecchi anni scuote la mia coscienza e quella delle persone coinvolte nella mia attività. Il tema di cui parlo è il complesso e sempre più cieco rapporto tra i giovani artisti contemporanei italiani e l’universo pubblico e privato che li circonda. L’operazione promossa dai curatori della mostra «La Cina (non) è vicina». Visitabile presso il museo di Santa Giulia (Brescia) può essere riassunta in poche parole, forse anche con il silenzio. Un ben noto e vecchio paradigma, costruito attorno ad una conversione semplificata dei linguaggi dell’arte, un ritorno al «Pop» non richiesto costruito per sottrarre l’attenzione dalle nuove forme di creatività e talento di tanti giovani artisti italiani. Uno spazio nobile, bello, possibile, dedicato come sempre più spesso avviene al solito artista straniero, che sembra portatore di avanguardia ma che rappresenta in realtà i soliti commercianti d’arte e promotori noti. Capaci di costruire campagne di marketing e di far ben fruttare i propri investimenti, più o meno alla luce del Sole. Un panorama complesso che sempre più ferocemente esclude i giovani creativi e talentuosi per favorire fenomeni che meglio si adattano ai social «Istantanei», pieni di messaggi veloci, semplici e superficiali. La politica e l’anti-politica interessano ormai veramente a qualcuno? Sicuramente un artista che non trova possibilità in qualsiasi angolo del Mondo, probabilmente a causa della mancanza di originalità della sua operazione linguistica, ignorato dal suo governo e dai suoi concittadini, desta interesse a Brescia. Luogo dove le campagne politiche del Mondo Asiatico sono di questi tempi tema molto sentito. Viene da chiedersi se in Lombardia e in generale in Italia esista un’istituzione pubblica in grado di capire di cosa si parla quando si tratta il tema dell’arte contemporanea. Negli ultimi anni molti artisti italiani chiedono merito del loro talento e attenzione da parte di istituzioni spesso congelate in un passato che sfortunatamente non può tornare. Gli stessi pittori, scultori o artisti contemporanei di genere, dopo importanti esperienze all’estero trovano nella nostra bella Italia, solo incomprensione e invidia. I pochi spazi di vita per loro sono alcune gallerie private e alcuni spazi pubblici di dubbia gestione. Dediti però a innumerevoli «performer stranieri» in quella indefinita descrizione di circo degli artisti dove i valori creativi sono confusi. Bisogna sempre ricordarsi che l’arte, pur soffrendo di complesse regole di mercato, non può adattarsi alle dinamiche di marketing dei prodotti da supermercato. La politica allo stesso modo dovrebbe essere esclusa dalle visioni libere e creative che meriterebbero riflessioni libere, profonde e sensibili. Non tentativi di brutalizzare l’attenzione imitando un reality show o uno spot. Con questo non sconsiglio affatto la visione della mostra, che merita di essere osservata e non disertata, né in alcun modo vorrei definire fasulla l’attenzione dell’artista verso i temi sociali che pur se con una ovvia strumentalizzazione, possono far riflettere. L’assenza profonda riguarda proprio il tema artistico, il «delitto» se così lo si può scherzosamente definire è nel carattere esiguo e poco significante dell’operazione creativa. Orfana di originalità e linguaggio, di segni illuminati o di qualsivoglia ricerca. È semplice, somiglia alla Pop art degli anni Sessanta, ti consente di schierarti con o contro la sua idea politica, ma di arte non c’è niente ed è un peccato. Un tempo perso e vuoto che ormai abbiamo preso per trend, per buono.
// Simone PapaliniDirettore della galleria d’arte «Lo spazio bianco» - Milano
Gentile gallerista, non entro nel merito delle considerazioni sul valore artistico delle opere di Badiucao esposte a Brescia: non sono un critico d’arte, non mi piccherò certo di farlo in questo caso. Eccepisco invece sull’ignorare il contesto in cui è stata organizzata la mostra, per sostenere che si siano voluti ignorare artisti italiani ben più meritevoli di trovar spazio. La mostra di Badiucao è stata inserita nella quarta edizione del Festival della Pace di Brescia, Festival nel cui ambito viene offerto uno spazio espositivo ad un/una artista impegnato/a in difesa della libertà di pensiero oppure osteggiato/a dal regime del proprio Paese. Badiucao ha raccolto il testimone da un’altra artista-dissidente, la curda Zehra Dogan, incarcerata per tre anni in Turchia per le sue opere di denuncia, e la cui mostra «Avremo anche giorni migliori» fu allestita a Santa Giulia nel 2019. La «pop art» di Badiucao sarà pure «da anni Sessanta» e un «déjà-vu», ma pare confligga ancora parecchio con il pensiero artistico «a una dimensione» del regime cinese, che non ha mancato, si sa, di provare fino all’ultimo a far saltare la mostra diffidando il Comune di Brescia dal dar spazio all’artista. Le opere di Badiucao non rappresenteranno una tappa fondamentale per i canoni estetici occidentali contemporanei, ma non è per questo che hanno trovato spazio nel Festival. Potrebbe allora risultare tempo perso, sì, accapigliarsi su quale sia il tasso di «creatività» in essa contenuto... E rispetto a che? Al Moma di New York? Al Pac di Milano? Al Museo d’Arte Contemporanea di Pechino? La mostra del «Banksy cinese», comunque, si può visitare fino al 13 febbraio. (g.c.)
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