Aziende vendute. Lo Stato torni ad intervenire

Lettere al direttore
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Tra Ilva e Gkn, come pure per stare più vicini a noi, Iveco e Bialetti, tanto per citare alcuni casi dei più conosciuti, in modi diversi si sta sgretolando una struttura di fabbrica, che aveva fatto del nostro Paese, uno dei più industrializzati al mondo. Diversi «capitani di impresa» sono cresciuti anche con continui «foraggiamenti» da parte dello Stato e con la politica delle privatizzazioni e del «privato è bello». Qualcuno ha pensato e realizzato, a danno delle comunità, uno Stato che rimanesse fuori dall’economia, svendendo proprietà e facendo guadagnare solo alcuni gruppi privati. Diverse volte si è venduto ad imprese estere, che hanno acquistato marchi e produzione, per poi chiudere le fabbriche e riaprirle nei propri Paesi o altri, dove i ricchi pagano meno tasse. Mentre per chi vive del proprio lavoro, le tasse sono aumentate e l’inflazione sempre alta, senza avere recuperi di sorta, ha portato a salari e stipendi sempre più bassi. Forse, sarebbe ora di invertire la rotta, di fare intervenire nuovamente lo Stato in economia e ricostruire un tessuto produttivo, degno di questo nome, con «acquisizioni» e forti investimenti, garantendo appunto occupazione e reddito a tutti i lavoratori e le lavoratrici, senza più contratti capestro, soprattutto per i nostri giovani. Arrivando anche a riconversioni produttive, bonifiche e altro, che possono portare più salute e benessere. Bisogna togliere il «pareggio di bilancio in Costituzione», votato da tutti i partiti, da centrodestra come da centrosinistra, con Monti. Bisogna rivedere e cambiare i «trattati europei», che non tutelano i popoli, ma solo gli interessi dei gruppi economici e finanziari. Insomma, servono politiche per le persone, non per la finanza e per pochi e Rifondazione Comunista deve stringere accordi con chi vuole uscire da certe logiche, perché troppe volte la politica di centrodestra e centrosinistra non sono alternative, ma servono, diverse volte, solo a sostituirsi agli altri, per fare comunque le stesse cose.

Giovanni Pagani
Iscritto a Rifondazione Comunista

Caro Giovanni, non ci sono più i Peppone di una volta, figuriamoci se abbiamo la pretesa di vestire i panni di don Camillo. In punta di penna, però - e al netto della simpatia personale, ch’è fuori discussione - qualche contestazione dobbiamo fargliela. I «continui foraggiamenti» da parte dello Stato saranno stati elargiti su spinta di «capitani d’impresa» temerari, ma a favorirli sono stati quei partiti che pretendevano per lo Stato un ruolo da protagonista industriale e non soltanto da dispensatore di regole. Così come togliere il vincolo del pareggio di bilancio, immaginandosi una spesa senza limiti, riproporrebbe i vizi che ci hanno portato fin qua, sull’orlo del burrone. «Votiamo Rifondazione! E faremo un passo avanti» ci verrebbe da commentare. Non lo faremo, poiché un punto con lei l’abbiamo effettivamente in comune: una politica per le persone e non per la finanza. Come base di partenza, accontentiamoci. P.S. Fin qui la grana grossa. Sapendo che se dovessimo entrare nel dettaglio ci perderemmo in mille rivoli. Il pareggio di bilancio, ad esempio, ch’è indice di buona gestione domestica, raramente lo è per le aziende e per gli Stati. Tra il pareggio di bilancio del regno di Napoli e l’indebitamento del Piemonte sotto Cavour, per dire, è certo sia stato lungimirante il secondo. Un conto però è indebitarsi per ammodernarsi o darsi nuove strutture efficienti, che nel medio periodo moltiplicano il valore degli investimenti, un altro spendere più di quanto entra nelle casse per foraggiare la spesa corrente e un tenore di vita superiore a quello che si dovrebbe. E se siamo dovuti arrivare al vincolo in Costituzione è perché per troppo tempo noi italiani abbiamo ritenuto la spesa pubblica un pozzo senza fondo a cui attingere, senza renderci conto che così si alimentava un bengodi dal fiato corto e dal lassismo facile, zavorra imperitura per le future generazioni. (g. bar.)

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