Italia e Estero

Corsini: «Non mi ricandido, l'addio al Pd è stato lacerante»

Senatore ed ex sindaco di Brescia: «Sono cresciuto a pane e questione morale. Il renzismo è inaccettabile»
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Chiusa la legislatura è giunto il tempo delle scelte per una delle figure più illustri della politica bresciana: il senatore Paolo Corsini.

Senatore, quali sono le sue intenzioni in vista del voto del 4 marzo?
Non proporrò la mia candidatura. Certamente non posso nascondere il compiacimento per le sollecitazioni che mi sono giunte tanto a livello locale quanto da personalità autorevoli della politica nazionale. Sollecitazioni che ho declinato. Ho compiuto da pochi giorni 70 anni e va favorito un opportuno ricambio generazionale. Sono contrario alla cosiddetta rottamazione che comporta un che di aggressivo e di violento, ma sento il dovere di questa scelta. Dopo 12 anni da sindaco e 13 da parlamentare, penso di aver dato quello che potevo e dovevo alla vita pubblica. Considero dunque conclusa la mia stagione politica. Del resto non si può essere uomini per tutte le stagioni.

La sua decisione arriva poco più di un anno dopo la sua uscita dal Pd.
La mia fuoriuscita dal Pd ha costituito un momento doloroso e lacerante poiché nel partito democratico avevo riconosciuto le ragioni del mio impegno politico, vale a dire la possibile sintesi della tradizione cattolico-democratica, della sinistra di governo, del liberalismo dei diritti, dell’ambientalismo della ragione, oltre che una convincente valorizzazione del civismo responsabile. Ebbene, quando il Pd è divenuto il PdR - partito di Renzi non ha più costituito per me un riferimento ideale. Da sempre vivo l’impegno politico come una branca della vita morale e intellettuale. Ho dovuto dunque lasciare il Pd innanzitutto per una ragione di moralità personale, non avendo condiviso alcune delle scelte fondamentali del Pd renziano: la riforma costituzionale, la legge elettorale detta Italicum, la Buona Scuola e taluni aspetti del Jobs act.

Ha pensato alle dimissioni dal Senato?
Certamente. Sarebbe stata tuttavia una scelta ipocrita perché sarebbero state respinte. Ho trovato quindi una uscita di sicurezza aderendo al gruppo parlamentare del Movimento dei Democratici e Progressisti, senza tuttavia prendere la tessera di partito. Non intendo infatti assumere alcuna funzione di rappresentanza o ruolo istituzionale. La mia militanza politica finisce qui, ma non cessa qui la mia presenza nella vita comunitaria.

Che cosa contesta a Renzi e al renzismo?
Sono cresciuto a pane e questione morale, tra Aldo Moro e Enrico Berlinguer. È dunque inaccettabile per me il doppio standard morale del renzismo. Come può un partito perseguire comportamenti e scelte che se compiute da Berlusconi gli sarebbero state imputate e condannate? A Berlusconi si è contestato un uso improprio della questione di fiducia, al punto da organizzare proteste pubbliche per le 29 fiducie richieste. Ebbene il governo Renzi vi ha fatto ricorso in 66 casi. E ben 7 volte la fiducia è stata posta sulla legge elettorale. Non solo: nel caso della riforma costituzionale il governo ha addirittura imposto il proprio testo in commissione, violando una norma propria di qualsiasi sistema liberal democratico. Se Berlusconi avesse operato in tal modo il Pd sarebbe sceso in piazza.

Ma anche la base ha seguito Renzi.
Un’ulteriore ragione per me di amarezza. La base del Pd ha supinamente accettato e condiviso le decisioni del suo leader ed io mi sono trovato a rapportarmi con un elettorato diverso da quello in cui mi ero riconosciuto.

Che altro critica del renzismo?
L’elenco sarebbe lungo: una politica che definirei dell’occasionalismo, il ricorso ad un populismo di governo nell’illusione di poter attrarre consenso che invece premia altri. E ancora: l’ossessione della leadership, la pratica della politica come marketing pubblicitario, senza dimenticare una estetica della comunicazione che spesso nega la moralità dell’azione.

Cosa intende?
Faccio il caso dello ius soli: a fronte di reiterate dichiarazioni pubbliche di sostegno alla proposta di legge, è stato lo stesso capogruppo del Pd del Senato, Luigi Zanda, a spingere ben 29 parlamentari all’uscita dall’aula per far mancare il numero legale.

Altri appunti a Renzi?
Trovo inconcepibile la pratica del garantismo ad intermittenza: un approccio giustizialista con dissenzienti, contendenti ed avversari (Lupi, Guidi, De Girolamo, persino con Cancellieri e Josefa Idem) e invece il garantismo con gli amici. Ritorna quel familismo amorale che si regge su stretti rapporti tra consorterie e che ha configurato una sorta di kilometro 0 della politica renziana. Nel caso di banca Etruria non si evidenziano responsabilità penali a carico di esponenti del Pd, ma certamente emerge un gravoso conflitto di interesse.

Dunque lei boccia l’intero operato degli ultimi governi?
No, alcuni risultati sono senza dubbio rimarchevoli: le unioni civili, il testamento biologico, il dopo di noi, le leggi sul femminicidio, sulla tortura, sul divorzio breve. Tuttavia non si è profuso altrettanto impegno sulle grandi questioni sociali che costituiscono uno storico fattore di arretratezza per il nostro Paese, peraltro oggi alle prese con diffuse situazioni di povertà e di indigenza, di disparità e di diseguaglianza; insomma si sono spesso scambiati i diritti con i bonus, secondo una logica di benefici elargiti senza alcuna mediazione sindacale e senza un disegno di crescita e di rilancio della vita economica, di modernizzazione.

La legislatura appena conclusa ha vissuto momenti drammatici: cosa ci può dire?
Penso ai 101 che hanno estromesso Prodi dalla corsa al Quirinale e annientato la segreteria di Bersani. Gaetano Quagliariello oggi documenta in suo libro che anche una parte dei renziani ha contribuito a provocare quella situazione. Penso ancora allo «stai sereno Enrico» che ha determinato la fine del governo Letta in nome del primato tutto renziano dell’occasionalismo politico. Penso ad una politica divisiva che si è sommata ad una velleitaria presunzione di autosufficienza che ha portato a coltivare l’idea del partito della Nazione. Da parte mia riconosco soltanto il partito per la Nazione.

Quindi la sinistra ha fallito?
Renzi ha perseguito il disegno di tagliare i rami della sinistra nell’intento di conquistare settori dell’elettorato di centrodestra. Dopo le elezioni europee questo progetto è risultato vano perché non è riuscito a dividere i populisti dai moderati, i sovranisti dai conservatori liberali. Il Pd nel quale ho creduto doveva essere coalizionale, attrattivo, inclusivo. Oggi si ritrova isolato, alleato con piccoli cespugli che non costituiscono una coalizione, ma un semplice assembramento.

Anche a Brescia la situazione del centrosinistra è così drammatica?
A Brescia il sindaco Del Bono di cui ho apprezzato i risultati amministrativi ha tenuto una linea politica oculata. È stato aperto e disponibile a coinvolgere in un tavolo programmatico tutte le componenti del centrosinistra e del civismo democratico e progressista, proponendosi come federatore.

Lei è uscito dal Pd ma sosterrà Del Bono alle prossime comunali?
A Brescia abbiamo sempre sostenuto che le linee politiche nazionali non dovevano essere applicate meccanicamente. Questo è valso nel caso delle giunte aperte di Cesare Trebeschi e questo ha consentito anche a me di diventare primo cittadino nel 1992.

E per le politiche che cosa farà?
Sosterrò certamente Liberi e Uguali con Pietro Grasso e qualora venissero candidate, due figure come quelle di Paolo Pagani, coordinatore provinciale di MdP, e di Francesca Parmigiani che si è costruita sul campo una credibilità nella battaglia contro la riforma costituzionale.

Cosa farà Paolo Corsini, chiusa la stagione politica?
Sono tornato alla ricerca e allo studio. Ho appena pubblicato, con il prof. Cipolla, una voluminosa ricerca sulla nascita della Croce Rossa sul modello del cattolicesimo sociale bresciano. Tra pochi giorni vedrà la luce presso La Scuola editrice una poderosa monografia realizzata con Marcello Zane, dedicata al sindaco Bruno Boni: una interpretazione della sua figura non solo in chiave locale, piuttosto come tentativo di offrire una spiegazione plausibile della supremazia democristiana a livello nazionale nel «trentennio glorioso» compreso tra 1945 e 1975.

Insomma esce dalla politica ma non dal dibattito?
Da libero cittadino intendo partecipare pienamente al discorso pubblico, tanto politico quanto culturale.

 

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