Italia e Estero

Quirinale, perché dopo quattro scrutini siamo già preoccupati

Le 21 votazioni per Saragat o le 23 per Leone avevano ragioni differenti. Oggi ognuno gioca per sé, cercando di massimizzare il profitto politico
Due corazzieri nel salone delle feste del  Quirinale - Foto Ansa/Francesco Ammendola © www.giornaledibrescia.it
Due corazzieri nel salone delle feste del Quirinale - Foto Ansa/Francesco Ammendola © www.giornaledibrescia.it
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Dopo l’esito negativo della quarta votazione per l’elezione del Capo dello Stato, si diffonde nel mondo politico e nel Paese un certo sconforto per il protrarsi di una situazione più complicata che complessa e che si va ingarbugliando oltre il limite del «non ritorno». Molti obiettano che nella Prima Repubblica ci vollero 21 scrutini per Saragat nel 1964 (sotto Natale) e (con l’esito il 24 dicembre) 23 nel 1971 per Leone, senza contare i sedici per Pertini (1978) e per Scalfaro (1992). Ci si meraviglia anche del fatto che il centrodestra non abbia partecipato al voto, come se fosse una novità: ma proprio nel 1971, solo per fare un esempio, la Dc si assentò per ben 14 volte (non consecutive) per sbloccare la situazione.

Certo, anche allora i giornalisti e l’opinione pubblica facevano notare l’anomalia di «conclavi» così lunghi. Ma c’erano sempre dei punti di riferimento: un quadro politico ben definito (un’alleanza di governo; un’area di riferimento degli eleggibili, che andava dal Pli al Psi, tagliando le estreme e che per metà delle volte doveva vedere al Colle un Dc) di fronte al quale si poteva agire di conserva o in opposizione. Per esempio, Gronchi fu votato nel 1955 contro il centrismo, Segni fu voluto nel 1962 da Moro per controbilanciare a destra l’apertura a sinistra al Psi. Anche il gran numero di schede ad un candidato, in funzione di segnale politico, non è nuovo: l’ascesa di Mattarella in questi giorni ricorda quella di Gronchi, però con finalità molto diverse (in comune hanno un dissenso rispetto alla leadership del partito: ieri la Dc, oggi il M5s). Alla fine, nel grande gioco del Quirinale, si sapeva che se l’uscente era un Dc, l’entrante sarebbe stato un laico e viceversa: l’importante era trovare la persona giusta in un ambito sempre ben definito.

Gronchi, eletto nel 1955 in dissenso ai vertici Dc
Gronchi, eletto nel 1955 in dissenso ai vertici Dc

Le differenze

Stavolta non è così: uno degli errori compiuti dai protagonisti è stato per esempio volere un eletto di centrodestra, quando si è visto ieri che quell’area politica arriva a stento a 440-450 voti su 1009; una volta, Dc e alleati potevano discutere per giorni sui nomi e sui risvolti politici ma avevano teoricamente i voti per un’elezione immediata, mentre oggi nessuno (né Salvini, né Conte, né Letta, per non parlare degli altri) ha i numeri per imporre qualcosa o qualcuno. Il disagio grave di questi giorni non sta dunque nel numero degli scrutini (che è ancora basso) ma nel fatto che, come nel 2013 quando si finì per rieleggere Napolitano (ma prima si erano svolte solo cinque votazioni), la società e la comunicazione vogliono tempi rapidi e decisioni efficaci.

Le insalatiere, in una foto pubblicata da Fico sul suo profilo Twitter
Le insalatiere, in una foto pubblicata da Fico sul suo profilo Twitter

Non le si poteva avere - un tempo - da un sistema strutturato, dove certo non si temeva la caduta del governo se si eleggeva un Capo dello Stato (tanto i governi cambiavano frequentemente, mantenendo la stessa formula e talvolta in gran parte gli stessi ministri), figurarsi oggi. Il governo Draghi è nato a causa di molteplici emergenze, è figlio dell’unità nazionale (o quasi) e di forze storicamente incompatibili fra loro: sbagliare la scelta del Capo dello Stato può far saltare tutto, senza avere soluzioni o formule di ricambio. Inoltre, i kingmaker erano - un tempo - investiti di un potere che derivava loro dalle «truppe parlamentari che potevano mobilitare e aggregare, oltre che dei rapporti possibili con gli altri leader. Oggi ognuno gioca per conto proprio, cercando di massimizzare il profitto politico ricavabile.

Per esempio: perché non si fa il «conclave» dei leader? Perché vi parteciperebbero almeno sei o sette persone, più almeno un vice per il M5s (Di Maio, perché Conte non rappresenta tutti i suoi) e Salvini, in quel contesto, «varrebbe uno» come Renzi o Speranza o Meloni (quest’ultima, peraltro, ha già fatto capire al leader leghista di non tollerare la sua leadership e la sua conduzione solitaria del gioco quirinalizio). Inoltre, bisognerebbe tenere conto degli equilibri di governo, di quelli interni ai partiti, della personalità dei candidati, dei troppi veti che elidono praticamente tutti i papabili. Insomma, ecco perché ci preoccupiamo dopo quattro scrutini e perché 50 anni fa ci saremmo messi comodi a guardare la scena.

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