Relativismo: se tutto è frammento

Non ha vinto il comunismo, ma il relativismo ha lo stesso trionfato. Sotto altra forma: ammantata dal vessillo del capitalismo. Icona del futuro, spasimo della modernità, ha scardinato la gabbia delle verità assolute proiettando l’uomo verso l’era delle libertà. Sembrava fatta, nel XX secolo, quando le società post-belliche rinacquero sotto l’egida ereditaria dell’Illuminismo. Dentro c’era anche il germe sofista, che fa sempre esotico. Ma anche l’uscita-dell’uomo-dallo-stato-di-minorità-che-egli-imputava-a-se-stesso era relativista per religione e cultura e spingeva invece per il valore universale della ragione e dei diritti umani.
Due giorni fa Papa Francesco ha condannato la «cultura del grande vuoto provocata dal pensiero debole e dal relativismo» che porta «a vivere “alla carta” tanti giovani». L’ha detto in Belgio, l’aveva ripetuto in Lituania e in Corea. Non si riferisce a religione e diritti Bergoglio. È la «cultura del frammento», quella fotografano sociologi e psicoterapeuti urlandone ai quattro venti pericoli e rischi. Le società post-rurali che conoscevamo si stanno dissolvendo: famiglia e legami non sono più pilastri, paese e città non sono più riferimenti. Anche il lavoro non ha lo stesso valore di un tempo (ma a volte resta alienante, quello sì). E le vite si fanno confuse, parziali, soggettive.
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