Carcerati invisibili alla società

Il carcere appassiona solo se raccontato come finzione in tv. Quello reale è un buco nero dal quale stare alla larga. Il mondo marcio della società lasciato alla buona volontà dei singoli. Ma la vita dietro le nostre sbarre è un incubo fatto di umiliazioni e traumi, non solo di rinunce.
Forse per questo diventa l’oblìo della coscienza collettiva: scompare da ogni dibattito, pubblico e privato. Non bastano neppure le immagini dei pestaggi, i numeri di celle troppo affollate, i suicidi. Qualcuno non avrà pietà, ma quando si sta tra i dannati i peccati di Caino passano in secondo piano. La pietas non guarda alla colpa. I morti non dovrebbero fare contabilità. La questione carceraria resta così il brusìo della società, il rumore bianco della politica.
E le emergenze stanno ancora tutte lì. Ai nostri occhi il carcere è lontano, impercettibile, sfugge alla sensibilità. In fondo, vien da dire, la punizione esemplare è meritata. In fondo, vien da pensare, chi ha messo piede lì dentro resterà sempre un «carcerato». Perché il pregiudizio per l’ex galeotto è uno degli inossidabili peccati capitali della società moderna. Forse basterebbe varcare quella soglia una volta nella vita per cambiare idea.
Condizioni di vita dignitose e strade alternative al carcere. Questo è quello che chiedono a gran voce da Brescia a Reggio Calabria. Ed è quello che ha chiesto al Capo dello Stato chi vive al di là delle mura di Canton Mombello.
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