Comunicato Stampa: "Un giorno in officina", un libro che ascolta le vite che nessuno racconta

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Al mattino presto, mentre la maggior parte delle case ancora dorme e i bar aprono con i primi rumori di macchina del caffè, c’è chi è già in viaggio, con lo zaino sulle spalle e la tuta ripiegata sottobraccio. In treno, su una bici sgangherata, a piedi lungo i marciapiedi ancora umidi di rugiada, comincia la giornata operaia di chi, ogni mattina, tiene in piedi il motore nascosto del Paese. È in questo scenario concreto e familiare che si muove il romanzo diDavide Castrechino,Un giorno in officina(Gruppo Albatros Il Filo, 2025).
Castrechino, bolognese classe 1975 e operaio egli stesso, non scrive da osservatore esterno ma datestimone. E proprio per questo riesce a costruire una narrazione che non ha bisogno di alzare la voce per farsi sentire. È una scrittura che sussurra, che osserva, che si prende il tempo di raccontare e il suo è un romanzo fatto di turni e sogni, di rabbia trattenuta e piccole speranze coltivate tra le macchine, le chiacchiere da spogliatoio e il dolore che non sempre trova parole.
Il protagonista, Elbyll, è un uomo comune, ma è proprio in questa normalità che giace la forza del racconto. Ogni mattina si sveglia, regala un sorriso ai figli, un bacio alla moglie, poi prende il treno e si infila in un’altra vita: quella scandita dal suono della sirena delle otto, del rumore costante delle macchine, degli sguardi che parlano più delle parole. La sua è un’esistenza fatta di gesti ripetuti, ma ogni gesto porta con sé un senso. 
Il merito maggiore di Castrechino è la capacità di tenere insieme laconcretezzadel lavoro manuale con una scrittura che non rinuncia allaprofondità. Lo stile un’estensione naturale del mondo che racconta. Non si limita a descrivere: si sporca le mani con la realtà, la lavora, la lima, la rifinisce. È una lingua che somiglia a un’officina: ha i suoi ingranaggi, il suo metallo, ma anche gli scarti e la polvere, i silenzi tra una battuta e l’altra, i vuoti tra un pensiero e un gesto.
Sotto una superficie piana e accessibile, si nasconde una struttura ritmica molto consapevole. La sintassi è fatta di frasi brevi, coordinate che si rincorrono come turni a catena, dialoghi che riproducono la lingua parlata ma non rinunciano al ritmo narrativo. E poi ci sono le pause, le ripetizioni, le modulazioni interne che segnano i momenti emotivi con naturalezza. Castrechino non cerca la parola “bella” ma quella giusta, precisa, necessaria. Ogni termine è caricato di funzione perché, come in officina, tutto deve servire, anche ciò che apparentemente è solo sfondo.
L’oralità è un altro elemento strutturale.I personaggi parlano come vivono:con espressioni comuni, intercalari, mezze frasi, con un lessico quotidiano che non è mai banalizzato. È una lingua che conosce la fatica ma non rinuncia all’ironia.
Attorno al microcosmo dell’officina gravitano diverse figure, tra le quali emerge Francesco: figura spigolosa e insieme tenera, è il collega che si lamenta, che arriva tardi, che si nasconde dietro le macchine, ma anche quello che legge, che sogna, che ama. Castrechino costruisce intorno a lui un racconto d’amore struggente: il suo incontro con Michela, la farmacista del paese, è uno dei punti emotivamente più intensi del romanzo. I due si avvicinano piano, con gesti minimi, con conversazioni imbarazzate e tenere. L’autore non forza il pathos: lo lascia emergere con delicatezza, con quella naturalezza che solo chi conosce davvero l’animo umano sa restituire.
Il romanzo, però, non si ferma qui. Prosegue inun crescendo etico ed emotivoche culmina nella storia di Maria e del suo incontro con un uomo che si finge non vedente per truffarla. In lei si concentra forse la parte più politica del romanzo,  perché si mostra ciò che normalmente non si racconta:la solitudine dei più fragili, la facilità con cui la fiducia può essere tradita, l’indifferenza sociale verso chi è già ai margini. Eppure Maria non è mai vittima. È un personaggio che porta avanti una dignità testarda, una tenerezza che non si spezza nemmeno davanti all’inganno. La sua dolcezza è disarmante, il suo sorriso una forma di rivolta contro il cinismo.
"Un giorno in officina" è un libro che parla dellacollettività, delle dinamiche che regolano il vivere comune. Castrechino sceglie come campo d’azione il mondo del lavoro manuale, ma lo fa evitando ogni retorica. Il suo sguardo è interno, partecipe, mai compiaciuto. L’officina diventa così un microcosmo sociale, dove si incrociano storie di resistenza, frustrazione, solidarietà e sopravvivenza.
Uno dei meriti maggiori dell’autore è l’aver dato spazio alla fragilità, senza trasformarla in spettacolo. Tutto viene raccontato con un tono sommesso, ma mai arreso, così Castrechino mette in scena una società che tende a escludere ciò che non rientra nei parametri dell’efficienza, e lo fa usando la letteratura non come arma, ma come lente.
Il libro è suddiviso in scene che sembrano episodi di una docuserie sulla vita vera. Ci si muove tra spogliatoi, bar di paese, farmacie e cucine familiari, ma ogni luogo ha una sua sacralità quotidiana. L’amore per le piccole cose, per i rituali condivisi, per la fatica che unisce, è il filo rosso che attraversa tutta la narrazione. Castrechino riesce a bilanciare tono narrativo e tono emotivo con una maestria che si avverte nel tempo. La sua scrittura è come il rumore di fondo dell’officina: a tratti lo dimentichi, poi ti accorgi che era sempre lì, che ti ha accompagnato nel ritmo stesso della lettura. In questo, ricorda certe pagine di Ermanno Rea o, per restare nel mondo del racconto operaio, le prose di Ottiero Ottieri.
Castrechino è un autore che non vuole solo raccontare una storia, vuole restituire una voce. E questa voce arriva al lettore limpida, emozionante, priva di orpelli ma mai piatta. Anche i momenti più dolorosi, che causano la perdita, la delusione, l’inganno, sono trattati con una cura narrativa che li rende emotivamente accessibili a tutti, perché appartengono alla rosa collettiva delle emozioni più viscerali. In questo l'autore riesce a creare un profondolegame empaticocon i suoi lettori, che entrano di diritto a far parte dell'officina da lui immaginata, fino all'ultima pagina e forse un po' oltre. Potremmo definire "Un giorno in officina" come un romanzo sull’etica dell’ascolto. Come suggerisce l’autore in una frase significativa del libro, “non dovremmo essere noi ad adattarci alla realtà, ma dovrebbe essere lei ad adattarsi a noi”. Quella di Castrechino è una contro-narrazione del mondo, dove non vince chi corre più forte, ma chi sa fermarsi, chi riconosce l’altro e sceglie di restare.
Davide Castrechino ci ricorda che ogni vita, anche la più silenziosa e marginalizzata, merita di essere ascoltata. E che la letteratura, se vuole ancora avere un senso, non deve solo divertire o consolare, ma anche ricordare, riflettere, testimoniare.
In tempi in cui la narrativa si rifugia spesso nell’evasione,"Un giorno in officina" sceglie la realtà. Ma non per descriverla: per comprenderla. E, forse, per cambiarla un po’, a partire da chi legge.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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