Comunicato Stampa: “La vita che non ho potuto avere”, un romanzo di ferite e rinascite

“La vita che non ho potuto avere”diVincenza Angeloni, pubblicato dalGruppo Albatros il Filo, è un romanzo che affronta in modo intenso e stratificato il tema dell’identità, del dolore ereditato e delle conseguenze delle scelte mancate. La vicenda ruota intorno ad Alexandra, giovane donna segnata da una nascita difficile, cresciuta dalla nonna Tess dopo la perdita della madre, e sempre alla ricerca di un posto nel mondo che le appare sfuggente. Sin dall’inizio, l’autrice costruisce un impianto narrativo che alterna descrizioni delicate a momenti di forte tensione, facendo percepire al lettore la costante presenza di una ferita profonda, mai davvero rimarginata. Il prologo, con la sua atmosfera luminosa e quasi idilliaca, introduce da subito il contrasto che attraversa l’intera opera:ciò che appare sereno è costantemente minacciato da un’ombra, una presenza nascosta che osserva e che anticipa lo scontro fra desiderio e mancanza.
Il romanzo si snoda attraverso più piani temporali e generazionali, intrecciando la storia di Destiny, madre di Alexandra, con quella della figlia e della nonna Tess. Questo mosaico familiare mostra come il dolore e gli errori possano tramandarsi di generazione in generazione, lasciando cicatrici profonde. Tess rappresenta la figura del sacrificio e della dedizione assoluta, colei che porta avanti la vita quotidiana a costo di rinunce immense. Accanto a lei, Alexandra incarna la fragilità della giovinezza, esposta a solitudini, crisi interiori e rapporti sentimentali complessi. Angeloni restituisce con precisione i tratti di questa crescita difficile, descrivendol’adolescenza come un territorio instabile, segnato da chiusure, ribellioni e improvvisi crolli. La psicoterapia, la fatica di trovare una strada, il peso del passato diventano elementi che accompagnano il percorso della protagonista, senza mai sfociare in un ritratto semplificato.
La scelta di intrecciare le vicende private con i grandi eventi collettivi, come la pandemia, contribuisce a rendere ancora più densa la narrazione. La crisi sanitaria globale entra nella vita di Alexandra e Tess non come semplice sfondo, ma come ulteriore ostacolo, come lente che amplificala solitudine, l’insicurezza, la percezione di un futuro incerto. In questo modo, Angeloni riesce a connettere la vicenda personale con l’esperienza universale di una generazione che ha visto i propri sogni sospesi, la propria quotidianità stravolta. È un passaggio importante, perché mostra come il dolore individuale e quello collettivo siano spesso intrecciati, e come i traumi globali si riflettano nei destini dei singoli.
Ma il romanzo non si limita a indagare l’interiorità: a un certo punto, la trama prende una piega drammatica, rivelando tutta la sua dimensione narrativa. Alexandra scopre la verità sul padre biologico, un uomo che ha costruito altrove una nuova famiglia, ignara della sua esistenza. Questa rivelazione scatena in lei un tormento devastante: vede in quella famiglia la rappresentazione dellavita che le è stata negata, la proiezione concreta di ciò che non ha mai potuto avere. È qui che l’opera acquista la sua forza più dirompente, perché la riflessione psicologica si unisce a una tensione da vero romanzo drammatico, in cui l’ossessione di Alexandra si traduce in gesti estremi.
L’azione diventa metafora del desiderio di impossessarsi di ciò che la vita le ha tolto, e al tempo stesso segna il punto di non ritorno, costringendola a confrontarsi con la gravità delle proprie scelte. In queste pagine, l’autrice intreccia magistralmente suspense e introspezione, mostrando come il confine fra vittima e colpevole possa farsi labile, come la sofferenza possa trasformarsi in ossessione. Nonostante la tensione crescente, il romanzo non rinuncia mai a uno sguardo empatico, che non giustifica, ma comprende, che non assolve, ma restituisce umanità anche alla fragilità più estrema. Angeloni gestisce questo passaggio con equilibrio, senza cadere nel sensazionalismo, ma mantenendo alta la tensione emotiva e narrativa.
Il personaggio del padre, dal canto suo, porta nella narrazione un ulteriore strato di complessità. Un uomo che ha inseguito i propri sogni di gloria sportiva e ne è rimasto travolto, diventa il simbolo di un passato che ritorna in modo imprevisto, incarnandola colpa e il silenzio delle scelte non affrontate. La sua incapacità di assumersi le proprie responsabilità si riflette in tutta la vicenda, la sua nuova famiglia si trova così coinvolta in una vicenda che la costringe a un duro confronto con una realtà fino a quel momento celata, venendone irrimediabilmente compromessa. Angeloni costruisce i personaggi della sua opera con attenzione, senza ridurli a funzioni di trama, ma restituendo loro spessore e contraddizioni.
La scrittura si mantiene coerente nello stile, con descrizioni ricche e dialoghi intensi, capaci di far emergere la complessità dei rapporti familiari. Angeloni costruisce scene di grande impatto visivo, come quelle ambientate nei paesaggi americani, e allo stesso tempo si sofferma sui dettagli intimi, come gli oggetti delle stanze o i piccoli gesti quotidiani, che diventano specchi della condizione interiore dei personaggi.La dimensione esteriore e quella psicologica si rispecchiano continuamente, creando un tessuto narrativo che tiene insieme introspezione e azione.
Nell’epilogo, il romanzo non cede alla tentazione di un lieto fine consolatorio. Il dolore rimane, ma viene trasformato attraverso un gesto di consapevolezza: è un finale che non chiude con una riconciliazione totale, ma con un’apertura alla possibilità di pace interiore.La speranza non appare come una soluzione definitiva, bensì come un fragile equilibrio, conquistato attraverso la consapevolezza del limite. In questo senso, Angeloni sceglie una chiusura coerente con la tensione del libro: non un lieto fine artificiale, ma un percorso di accettazione che lascia spazio a un futuro diverso.
Il grande merito di “La vita che non ho potuto avere” è quello di tenere insieme due anime: quella del romanzo psicologico e quella del dramma familiare con venature quasi da thriller. Angeloni riesce a parlare di temi universali – la perdita, la mancanza, il desiderio di una vita diversa – senza rinunciare alla forza di una trama che cattura e avvince.Il titolo diventa così la chiave di volta dell’intera opera, perché ognuno dei personaggi vive all’ombra di ciò che non è stato, ma al tempo stesso è chiamato a trovare un senso nel presente.
Chiude il libro un senso di sospensione che rimane nel lettore: la consapevolezza che esistono vite non vissute, possibilità negate, ma anche che dentro la sofferenza può nascondersi la scintilla di un nuovo inizio. “La vita che non ho potuto avere” è dunque un’opera che lascia un segno, perché sa raccontare l’intimità delle ferite e insieme la tensione drammatica di scelte estreme. È un romanzo che commuove, inquieta e fa riflettere, capace di trasformare la storia di una famiglia in una riflessione universale sulla condizione umana.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato