Economia

Uova contaminate da fipronil, «il made in Brescia è garantito»

In provincia di Brescia 3 milioni di galline ovaiole. Martinoni e Prandini: «Controlli già molto rigidi». Sequestrati prodotti in Italia
I numeri. Il comparto bresciano delle galline ovaiole ha un giro d’affari di 100 milioni l’anno
I numeri. Il comparto bresciano delle galline ovaiole ha un giro d’affari di 100 milioni l’anno
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«In Italia non sono distribuite uova contaminate con l’insetticida Fipronil», lo ha certificato il Ministero della salute dopo lo scandalo scoppiato in Belgio e Olanda pochi giorni fa. In molti Paesi del Nord Europa, invece, nelle ultime ore sono andate distrutte milioni di uova potenzialmente avvelenate: secondo l’Oms, il Fipronil può provocare danni a reni, tiroide e fegato se ingerito in grandi quantità per un certo periodo. Ciò che è emerso dalla Commissione Ue è che nel nostro Paese sono arrivate uova provenienti dalle aziende sotto accusa.

Non solo, il Ministero della salute ha anche spiegato che un'azienda francese ha ricevuto uova «da uno degli allevamenti olandesi interessati e le ha trasformate in ovoprodotti che ha poi venduto anche presso un’azienda italiana». Ne è conseguito un sequestro che ha fatto sì che i prodotti non siano stati messi in commercio: «Non risultano distribuiti al consumo uova o derivati (ovoprodotti) contaminate da fipronil sul territorio nazionale». E intanto lo scandalo si allarga in tutta Europa, con Germania, Danimarca e Francia in prima fila tra i Paesi coinvolti, ma nella lista sono compresi anche Romania, Gran Bretagna, Svezia, Austria, Irlanda, Polonia, Slovenia, Slovacchia e Lussemburgo. 

«L’Italia, comunque, non può fare finta di nulla - attacca il vicepresidente nazionale di Coldiretti, Ettore Prandini -. Non si può trascurare il ruolo delle triangolazioni di prodotti di Paesi extra Ue che vengono importati nell’Unione, diventando a tutti gli effetti europei, tanto che nessuno può sapere da dove arrivano le uova utilizzate».

Secondo il leader di Coldiretti Brescia, il consumatore deve poter scegliere anche in base alla sicurezza che un prodotto «davvero italiano gli garantisce» e, nello stesso tempo, le imprese agricole coinvolte in questo comparto «devono tornare a fare reddito».

Gli allevatori italiani di galline ovaiole, infatti, pur garantendo la massima qualità del prodotto spesso sono penalizzati dal mercato.

«La qualità e la sicurezza del prodotto made in Italy costano di più - ammette Vittorio Roberti dell’azienda agricola Castello di Bedizzole (circa 200 milioni di uova l’anno vendute) -, ma le grandi catene di supermercati quando vanno sul mercato fanno aste al massimo ribasso».

«Siamo sottoposti a controlli giornalieri dell’Asl - racconta Diego Gualeni dell’omonima azienda di Orzinuovi (35mila uova prodotte al giorno) -, che, oltre a imporci una determinata alimentazione, prescrive specifiche cure (ovviamente senza antibiotici) per i nostri animali. Questi controlli - evidenzia il bresciano - comportano il rispetto del benessere animale ma pure costi di gestione maggiori, che il mercato spesso non ci riconosce».

«Negli ultimi anni - spiega Francesco Martinoni, presidente di Confagricoltura Brescia - le aziende della nostra provincia che producono uova hanno fatto investimenti molto significativi per garantire il benessere animale, ma anche per la sicurezza alimentare. I controlli inoltre sono così stringenti, soprattutto in ambito provinciale, che possiamo tutti dormire sonni tranquilli». Nella nostra provincia sono allevate oltre tre milioni di galline ovaiole: stiamo quindi parlando di un comparto con un giro d’affari di circa 100 milioni l’anno.

«Grazie a una produzione nazionale di 12,9 miliardi di pezzi l’Italia è praticamente autosufficiente», chiude Prandini sollecitando una più chiara indicazione della provenienza delle uova sulle confezioni dei prodotti. «Ci auguriamo - ha concluso Martinoni - che questo caso non venga trasformato, come accaduto in passato, in un’occasione per mettere sotto accusa l’agricoltura: non ci sono pericoli per le uova italiane e non c’è alcun motivo per ridurre i consumi».

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