Economia

Soncina: «A 104 anni il lavoro rimane una passione che mi tiene vivo»

Nel 1959 fondò la Omsi Trasmissioni, durante la Seconda guerra mondiale trascorse due anni nei campi nazisti: «Ero consapevole che finché avessi lavorato sarei rimasto vivo»
Giovanni Soncina - © www.giornaledibrescia.it
Giovanni Soncina - © www.giornaledibrescia.it
AA

Giovanni Soncina possiede il talento dell’uomo comune: non alza mai la voce, non si crede un oracolo, ma si è fatto conoscere come buon maestro e instancabile lavoratore.

Homo faber fortunae suae, predicava Appio Claudio Cieco nell’antica Roma: l’uomo è artefice del proprio destino. Con l’etica delle «cose ben fatte», nel giorno del suo centoquattresimo compleanno Nino Soncina ne è una palese dimostrazione e la sua testimonianza conferma che attraverso il lavoro un uomo costruisce sé stesso e il mondo intorno a sé.

La storia di Giovanni Soncina (all’anagrafe registrato come Giuseppe. «Fu un errore di un impiegato ... distratto», ipse dixit) dà perfino prova che anche in uno stato di brutale imposizione, come nei due anni di prigionia da lui passati nei campi nazisti, il lavoro possa paradossalmente rivelarsi un premio per la persona. Primo Levi ne «La chiave a stella» scriveva che «amare il proprio lavoro costituisce la miglior approssimazione concreta alla felicità sulla Terra». Con una lucidità spiazzante, seppur in un corpo diventato ormai più fragile, comprovando le sue affinità con il Tino Baussone raccontato da Levi in quel libro, il nostro protagonista, fondatore della Omsi Trasmissioni di Roè Volciano (oggi guidata dal figlio Renato), ammette che gli elisir di sua lunga vita sono «un comportamento molto metodico, a partire dalla pulizia personale. La passione per il lavoro e poi - svela - quando ero prigioniero ho capito fin da subito che se non avessi imparato il tedesco non sarei più tornato a casa».

La conoscenza di una lingua è importante, ma le guardie tedesche non ricordavo fossero così disponibili all’ascolto ...

«Nel settembre del ’43 i tedeschi arrivano all’aeroporto di Pola, dove io svolgevo dal 1941 il servizio militare per la Regia Aeronautica come motorista di idrovolanti. I tedeschi ci imbarcano su una nave e ci portano a Venezia. Lì ci danno due opzioni: "O ti arruoli con i fascisti o vieni con noi a lavorare in Germania". Mi dissero che avevo solo due minuti per decidere: mio padre e mio fratello non sarebbero stati dell’idea che io mi schierassi con i fascisti, così, in compagnia di un amico, sono partito per la Germania. A me è sempre piaciuto il lavoro, ma là ci facevano lavorare come matti, ci mandavano in giro con un vagone per tutto il Nord Europa a riparare binari. Mangiavamo molto poco e per di più non avevo un fisico robusto. Dovevo insomma trovare un modo per levarmi da quella situazione e una sera, mentre dormivamo nei letti a castello di legno, un amico tirò fuori dallo zaino un piccolo vocabolario di italiano e tedesco. "Tu lo usi?", chiesi. "No, me l’ha regalato mia sorella e non so che farne", rispose. "Me lo presti?", domandai. "Tienilo pure", replicò. Da lì in avanti, una parola alla volta, cominciai a imparare il tedesco».

E come ha potuto «proteggerla» da una fine ancora più crudele?

«Come le ho già detto, volevo trovare un modo per uscire da quella situazione. Allora, se mi avessero detto che avrei vissuto fino a trent’anni e che sarei tornato nella mia San Pietro (frazione di Roè Volciano, ndr), non ci avrei creduto: me la sono vista molto triste. Durante la prigionia ho girato tantissimo: ero a Dortmund quando siamo arrivati in un grande bosco da cui ogni giorno partivano i treni che ci portavano al lavoro. Un giorno è uscito dalla base il capo della cucina, cercando qualcuno che potesse servire e portare il pranzo agli ufficiali. Quando ha visto che ero sbarbato, pulito e sapevo qualche parola di tedesco mi ha preso con sé, come attendente. Lavoravo per lui un’ora al mattino, un’ora a pranzo e un’ora la sera. Inoltre, mangiavo più degli altri miei compagni e nel tempo libero mi sono inventato un altro lavoro. Dopotutto ero consapevole che finché avessi lavorato sarei rimasto vivo».

E che si sarebbe inventato?

«Lì vicino c’era un deposito di vecchie carrozze: io, per mia iniziativa, cominciai a sistemare con del velluto quella del primo ufficiale. A lui è piaciuta molto e lui in tedesco mi disse se volevo aggiustarne altre. Mi disse di scegliermi anche un compagno che mi aiutasse. Così ho fatto».

Loading video...
L'intervista rilasciata da Soncina a Teletutto in occasione dei festeggiamenti per gli 85 anni di lavoro dell'imprenditore

Pare che i militari tedeschi abbiano sempre avuto con lei un occhio di riguardo.

«Mi creda, i tedeschi non erano tutti cattivi. Lo erano (e lo sono) solo i fanatici. Non porto rancore e non ho mai odiato nessuno, nemmeno quando sono tornato a casa. Non ho mai avuto tempo per odiare, anche durante la prigionia il mio primo pensiero era che il giorno dopo sarei dovuto andare a lavorare. Alla fine della guerra ho visto le città tedesche distrutte, anche loro hanno sofferto. E poi non posso nasconderle che anch’io sono scampato alla morte...»

Racconti...

«Sul finire della guerra, i tedeschi si stavano ritirando. Noi lavoravamo tutta la settimana su vagoni dei treni, ma una domenica, stranamente, ci hanno tenuti in caserma. Tutto d’un tratto ci hanno portato in cortile, schierati. A quel punto sono passati degli ufficiali con il camice bianco. Ci hanno guardato negli occhi e chissà con quale criterio davano l’ordine: "Raus". A quel punto dovevi farti avanti. Io e i miei compagni eravamo malmessi, loro dicevano che ci avrebbero portato in convalescenza. L’ufficiale ha dato l’ordine anche a me: "Raus!". Non avrei voluto, ma ho fatto un passo avanti. Appena passato tutto il gruppo, però, visto che non c’erano guardie, sono tornato al mio posto, in riga. "Cosa fai? Cosa fai?" dicevano i miei compagni. "Cerco di portare a casa la pelle", risposi. E ho fatto bene, perché degli altri che sono stati scelti no ho più saputo niente. La mia è stata una scelta immediata, a volte ci vuole anche un po’ di fortuna».

L’avanzata degli americani mette quindi fine alla guerra. Lei in quel momento dov’era?

«I tedeschi mi hanno abbandonato in un campo, su un vagone. Non è stato comunque semplice tornare a casa. Prima di trovare riparo ho avuto la febbre alta, mi sono dovuto nascondere e infine sono stato soccorso da alcuni compagni. Il 28 agosto del 1945, dopo due anni di servizio militare e due di prigionia torno a San Pietro, nella casa dove sono nato, la canonica della chiesa parrocchiale».

A quel punto ricomincia a lavorare, corretto?

«Certamente. Torno al cotonificio De Angeli Frua di Roè, dove avevo iniziato a poco più di tredici anni come apprendista meccanico. Vengo però promosso capofficina è da quel momento ho dovuto dimostrare ai più anziani di me che quello che sapevano fare loro, lo sapevo fare anch’io. Così mi sono guadagnato il loro rispetto. Nel frattempo andavo anche a scuola, alle serali e nell’extra lavoro nel cotonificio, con il signor Daniele Messa ho realizzato un’annodatrice (che poi è diventata il core business della Mesdan, fondata dallo stesso Messa, ndr)».

Dopo venticinque anni passati al cotonificio, nel 1959 nasce la Omsi.

«E nel 1965 esportavamo, grazie alla mia conoscenza del tedesco e un po’ di francese, già i nostri pezzi (trasmissioni meccaniche) nel principato del Liechtenstein. Poi, visto che mio figlio Renato sapeva l’inglese abbiamo fatto di più. Oggi l’export vale l’85% del nostro fatturato (il bilancio 2023 riporta un monte vendite vicino ai 90 milioni di euro, ndr)».

Oggi va ancora in azienda?

«Non più come vorrei, da un anno il fisico non mi permette di essere autonomo. Ogni tanto, mi faccio accompagnare da mio figlio, mi piace ancora (la figlia Mariella, seduta accanto a lui, rivela che dopo il tour in azienda chiama i capi reparto e chiede spiegazioni e aggiornamenti su alcune lavorazioni, ndr)».

Sa che oggi è difficile trovare giovani disposti a lavorare in fabbrica?

«Lo so, ogni giorno leggo il vostro giornale e Il Sole 24 Ore. Ed è un peccato. Oggi i giovani sono bombardati da più tentazioni e spesso perdono la fame di conoscenza. Dovrebbero approcciarsi in modo diverso al lavoro: c’è da seguire una parte teorica e una parte pratica. A mio parere va ribilanciata la loro esperienza sul campo, in fabbrica».

A 104 anni, dopo 90 di lavoro, lei è stato nominato Cavaliere della repubblica e recentemente commendatore dell’ordine equestre di San Silvestro Papa da Papa Francesco...

«Un giorno diranno... fu cavaliere e fu commendatore, ma per quello c’è ancora tempo. A quanto pare, qualcuno si è ancora dimenticato di me...».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato

Icona Newsletter

@Economia & Lavoro

Storie e notizie di aziende, startup, imprese, ma anche di lavoro e opportunità di impiego a Brescia e dintorni.