Economia

Oscar dei Bilanci, la letteratura e la fabbrica nell'intervento di Giuseppe Lupo

Il docente di Letteratura italiana contemporanea all'Università Cattolica ha ripercorso il controverso rapporto tra umanesimo e fabbrica
Il professor Giuseppe Lupo durante il suo intervento alla serata dell'Oscar dei Bilanci - Foto New Reporter Favretto / Nicoli © www.giornaledibrescia.it
Il professor Giuseppe Lupo durante il suo intervento alla serata dell'Oscar dei Bilanci - Foto New Reporter Favretto / Nicoli © www.giornaledibrescia.it
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Qui di seguito il testo integrale dell'intervento che il prof. Giuseppe Lupo, docente di Letteratura italiana contemporanea all'Università Cattolica, ha tenuto sul palco del Teatro Grande, in occasione della nona edizione dell'Oscar dei Bilanci.

La frase di Léger andrebbe riscritta in forma di domanda: può essere colpa del treno se il cappello vola? Dobbiamo fermarlo nella sua corsa veloce sulla pianura? Io penso di no. Io penso che il problema sia un altro, eppure nella stragrande maggioranza di casi, nel secolo passato e anche in questo nuovo millennio, la colpa è stata attribuita al treno: è sua la responsabilità, è stato detto da parte di chi ha raccontato le storie ambientate nelle fabbriche, è quel che rappresenta nella sua funzione simbolica se il progresso, la tecnologia – chiamiamola con la parola più esatta: la modernità – hanno rovinato il paesaggio, distrutto la natura, reso l’uomo un abitante infelice di quella che Thomas Stearns Eliot aveva chiamato west land, terra desolata. Non è detto, però, che di fronte al volo del cappello mentre passa il treno la risposta sia: fermiamolo! Il treno può continuare la sua corsa. Basterebbe prendere le contromisure ai cappelli. Ma per arrivare ad affermare questo, per arrivare a difendere il primato della modernità su tutto ciò che le sta prima, dovremmo mettere da parte i malintesi di cui è stata circondata nel Novecento, dichiarare la sua irrinunciabilità, sconfiggere la tentazione di provare nostalgia per un passato che solo apparentemente sembrava perfetto ma, nel contempo, ipotizzare una via di mezzo tra la necessità di costruire, migliorare, produrre e il senso di rispetto che il pianeta chiede. Una via umana alle macchine, senza ombre e senza pregiudizi.

È sempre difficile dare una definizione al termine modernità, argomento di per sé scivoloso, il cui significato, mai univoco, è stato declinato per approssimazione e per strati: è moderno il personaggio di Ulisse tanto quanto Cristoforo Colombo, è moderno il Rinascimento come il Secolo dei Lumi. Per essere più precisi, nel termine modernità può nascondersi il passaggio epocale dalla civiltà della terra alla civiltà delle macchine, avvenuto in maniera definitiva e in forma compiuta tra gli anni Trenta e i Quaranta del secolo scorso. Non che prima mancassero le tracce di fabbriche e officine. Erano presenti già al termine dell’Ottocento, soprattutto concentrate nel triangolo Milano, Torino, Genova, ma soltanto nel periodo tra le due guerre mondiali – quando il reddito degli addetti all’industria supera quello degli addetti all’agricoltura e all’artigianato – il nostro diventa un Paese con un’economia industriale. Non è stato un salto indolore. Prima ancora che sull’economia, le trasformazioni hanno determinato cambiamenti di tipo etico e antropologico, hanno inciso nel tessuto familiare e sociale, causando l’insorgere di un lungo e travagliato dibattito che ha accompagnato i cento anni che abbiamo alle spalle, anzi ha dato loro una traiettoria di conflittualità più che di pacifica acquisizione, tanto che nessuno oggi ripensa a un Novecento spoglio delle questioni che i temi del moderno avevano proposto.

Dire Novecento, dunque, equivale a dire modernità industriale, con tutto ciò che la formula si è trascinata dietro, toccando il campo della politica, della cultura, dei linguaggi filosofici ed economici. Il problema non è stato solo il consolidarsi di un livello tecnologico, inevitabile e necessario per una nazione che intendeva collocarsi dentro lo scacchiere occidentale. È stata la reazione al cambiamento tanto nella gente comune quanto nelle élite intellettuali, il senso di disagio, la frattura profonda con il vecchio mondo e anche una certa diffidenza nei confronti del nuovo. Gli uomini di cultura si sono fatti carico di queste problematiche e ne hanno registrato le oscillazioni, motivo per cui la letteratura che si è occupata di questi argomenti può essere letta come termometro di un atteggiamento, il più delle volte corrosivo nei risultati, severo nei giudizi, espressione di un’antimodernità (più che di una convinta adesione alla modernità) che affondava le sue radici nel sostrato ideologico di un secolo complicato, votato allo scontro tra i modelli di società anziché al dialogo e all’integrazione.

Ora che il Novecento è terminato da oltre vent’anni – e sono sparite le ideologie, si sono modificati gli scenari internazionali e gli equilibri politici coabitano con le oscillazioni dei mercati – diventa necessario ripercorrere il rapporto tra cultura e industria alla luce di un’ipotetica controlettura della modernità, alla luce cioè di una interpretazione del moderno che non ha goduto di fortuna (perché rimasta nei sotterranei del secolo, mancando le condizioni ideali per emergere) eppure originale, alternativa, progettuale. Questa visione, che ha avuto i suoi interpreti e le sue figure di riferimento, segue pari pari l’altra, quella consueta a cui ci ha abituati il secolo, e mette a nudo una serie di malintesi che non solo hanno impedito di comprendere fino in fondo i fenomeni, ma che continuano a segnare i rapporti nelle opere dei giorni nostri, in un’epoca abbondantemente oltre la nozione di industria che il Novecento ci ha restituito. Questo dato è rintracciabile nella stragrande maggioranza dei titoli che finiscono sui banconi delle librerie tanto da favorire il sospetto che le numerosissime narrazioni dedicate al lavoro in fabbrica, nonostante questa definizione debba essere declinata in maniera diversa rispetto alla nozione del secolo scorso, altro non siano che una ripresa (forse di maniera) delle questioni ferme ai risultati ideologici di un Novecento ancora in auge. Anche questo aspetta contribuisce a non eliminare i caratteri di un malinteso e rende non scontato, anzi sorprendentemente attuale, il bisogno di discutere sul moderno in un’epoca dove il moderno non esiste più, sostituito dalle definizioni di ipermoderno o di postmoderno.

La sensazione è che la lunga parabola del progresso tecnologico, che ha attraversato il Paese modificandone per sempre i suoi connotati, non ha goduto di grandi simpatie presso i letterati, tranne in rarissimi casi – Primo Levi, Leonardo Sinisgalli, Elio Vittorini, Italo Calvino – attratti da un’idea di modernità che si manifestava nei numeri, in una formula chimica, nelle architetture di un grattacielo newyorkese, in una campagna pubblicitaria, nella grafica di una collana editoriale. Il resto della compagine ha continuato a conservare un atteggiamento di neutrale riserva o ha assunto una posizione di dissenso oppure ancora, in taluni casi, ha avuto il coraggio di spingersi nella zona grigia del rifiuto. Il cuore del discorso si trova qui: perché mai gli scrittori italiani hanno reagito in questo modo proprio durante il periodo che fa da spartiacque tra un’Italia contadina e un’Italia industriale? Per quale motivo, insomma, anche quando tramontano i caratteri tradizionali del fordismo ed emergono dapprima i fenomeni della delocalizzazione e della globalizzazione, poi quelli della smaterializzazione del posto di lavoro, perché mai sui banchi delle librerie continuano ad arrivare titoli che ritraggono la fabbrica (o quel che rimane della sua immagine) secondo una chiave di lettura che fa di essa, in maniera forse troppo monocorde, il motivo dell’infelicità umana? Fonte di inquinamento, causa di precarietà, luogo di incidenti mortali: sono questi gli ingredienti con cui di solito viene raccontata. Qualche anno fa, al termine di un’indagine che riguardava la letteratura del secolo scorso, Cesare De Michelis era arrivato a formulare una ipotesi di grande spessore interpretativo: gran parte di quel che era stato prodotto a ridosso del passaggio dalla civiltà della terra alla civiltà delle macchine, romanzi, saggi, opere poetiche, manifestava i caratteri di una antimodernità, termine quanto mai scomodo, addirittura inusuale se ci considera che il Novecento era nato sotto la bandiera del moderno, dunque potenzialmente votato al racconto di un’epoca di radicali cambiamenti antropologici.

Come si sia verificata questa anomalia è un tema destinato a far riflettere, però un elemento è certo: non solo c’è stata (e c’è tuttora) una cultura incapace di intercettare le potenzialità dei fenomeni che riguardano il diffondersi delle realtà produttive, ma resta vivo il dubbio che a monte di tale atteggiamento abbia agito una sorta di fraintendimento, un malinteso generato da pregiudizi che sono figli di un humus ideologico, di una cultura politica incline a individuare nella fabbrica l’icona più disumana del capitalismo, il cuore dei conflitti fra classi sociali e dello sfruttamento, il campo di battaglia di una borghesia cinica e senza scrupoli. Non è detto che tutto ciò non si sia verificato nel passato o non debba continuare a verificarsi. Tuttavia non può essere questa l’unica chiave – novecentesca nel lessico, nelle strutture del pensiero, nel tipo di approccio – con cui continuare a leggere il mondo del lavoro in un tempo che invece sta ben oltre il Novecento.  Siamo e rimaniamo un Paese antimoderno, una nazione che, posta dinanzi alle accelerazioni tecnologiche, avverte la tentazione di un ritorno all’arcadia contadina, tanto astratta quanto inattuale. Di fronte ai pericoli del moderno si può reagire in due modi: o negarli (ma saremmo davvero capaci di rinunciare alle potenzialità che ci elargisce?) o redimerlo dai suoi errori e dalle sue imperfezioni. Che è, molto probabilmente, la vera sfida su cui giocarsi il futuro.

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