Economia

Fim bresciana a lezione di tedesco

A Stoccarda incontro tra la delegazione dei metalmeccanici Cisl e i vertici della IG Metall. Al centro il concetto di «flessibilità».
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Ore 13, lezione di tedesco. Non inteso come lingua, bensì come modello di sviluppo delle relazioni sindacali. In aula, nella sede della IG Metall, l'unica organizzazione sindacale che rappresenta i lavoratori metalmeccanici tedeschi (ma raggruppa anche quelli dei settori tessile e legno), quarantotto delegati della Fim Cisl di Brescia prendono appunti. In cattedra siedono Bernardino Di Croce, sindacalista di origini italiane ma in forza alla IG Metall, il segretario generale della IG Metal di Stoccarda, Uwe Meinhardt, e il suo collega, Kai Burmeister (addetto al comparto auto) che, con lucidità, spiegano quali sono le normali funzioni di compartecipazione del loro sindacato alla gestione dell'impresa. Senza peraltro nascondere che la parola crisi qui in Germania ancora non incute terrore.

A Stoccarda si sono messe a confronto due forze sindacali con esperienze storiche condivise, che operano in un tessuto economico completamente diverso, ma che vantano una sostanziale visione univoca del loro ruolo. «Il sindacato non deve essere né troppo lontano né troppo vicino alla politica, ma una terra di mezzo che riesce a mettere a disposizione dei lavoratori maggiori risorse possibili» ha detto il segretario generale della Fim di Brescia, Laura Valgiovio, presentando la sua squadra ai colleghi tedeschi.
«Vent'anni fa, quando sono entrato in questa organizzazione - le ha spiegato Meinhardt - anche la IG Metall lottava contro il capitale, come se volesse eliminarlo. Ma dall'inizio degli anni Novanta abbiamo avviato una nuova fase: si concede di più all'impresa in cambio di maggiori tutele e garanzie a favore dei lavoratori. In questo modo partecipiamo alla crescita e alla distribuzione delle risorse».

Ed ecco che qui entra in gioco il concetto di «flessibilità»: in Germania però esiste un rapporto di solidarietà tra lavoratori e impresa. Lo dimostra il fatto che in molte fabbriche tedesche, di fronte a un calo della produzione, il salario rimane invariato. Lo spiega meglio Kai Burmeister: «Da noi sono previste da contratto 35 ore di lavoro settimanale. Se si verifica un calo della produzione, può capitare che i dipendenti di uno determinato stabilimento lavorino di meno, ma l'importo della loro busta paga, a fine mese, non cambia. L'azienda ha però il diritto di recuperare queste ore a credito (senza cadere in eccessi di lavoro straordinario) entro un anno». E se entro questo termine il mercato non consente di riportare la produzione ai livelli tradizionali «l'azienda perde il suo benefit» ha aggiunto Di Croce.

Ora però diventa ancora più difficile paragonare la situazione tedesca con quella italiana. Per una serie di motivi: a partire dal fatto che la IG Metall conta oltre 2,2 milioni di iscritti e questo rafforza la sua posizione al tavolo delle trattative. In secondo luogo, il sindacato teutonico fino ad ora ha portato avanti modelli di flessibilità del lavoro legati alla crescita dell'economia e solo adesso si trova a cercare una soluzione «flessibile» per adeguarsi a un sistema produttivo che segna un trend in flessione, comunque non comparabile con quello italiano.
«Non pensiamo di potere importare questo modello sindacale in toto - ha chiuso Laura Valgiovio - ma quantomeno un confronto con i colleghi tedeschi ci apre a nuovi scenari e a nuovi modelli di sviluppo economico e sociale dove il ruolo partecipativo del sindacato diventa di fondamentale importanza anche per la crescita dell'impresa».
Erminio Bissolotti

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