Eurobond, la ripresa dell’Europa passa attraverso il debito comune

Spauracchio per alcuni Stati, fonte di rilancio economico e industriale per altri. Di Eurobond si parla ormai da anni ma ora, dopo la Relazione sulla competitività europea presentata da Mario Draghi, sono tornati prepotentemente alla ribalta. A spiegare cosa sono questi strumenti è Roberto Savona, professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari all’Università degli Studi di Brescia.
Può in primis spiegare di che cosa si tratta?
Gli Eurobond sono obbligazioni governative emesse e garantite in solido da tutti gli Stati membri della zona euro, direttamente o tramite un’agenzia-istituzione. Si tratta di un debito emesso per raccogliere risorse finanziarie da rimborsare a condizioni prestabilite, di durata da breve a lungo termine.
Dopo varie proposte, la prima formulata nel 1993, tutto cambia con la pandemia di Covid nel 2020.
Nell’esigenza di preservare l’occupazione la Commissione emette titoli di debito comune per concedere prestiti ai Paesi membri. È questa la prima vera emissione di Eurobond, cui seguono quelle del 2022 a copertura del NextGenerationEu (Ngeu).
Si tratta di titoli a breve, media e lunga scadenza con meccanismo di garanzia volontario che vede gli Stati membri contribuire in proporzione alla propria quota relativa di reddito nazionale lordo dell’Unione. Gli Stati membri contribuiscono in proporzione alla propria quota relativa di reddito nazionale lordo dell’Unione. Da un punto di vista dell’acquirente (gestori di fondi, banche e altri investitori istituzionali), sono obbligazioni al pari dei titoli di Stato, che dietro il pagamento di un prezzo di acquisto riconoscono cedole periodiche e rimborso del capitale a scadenza. Essendo emessi dall’Ue godono inoltre di rating elevato.

Quali sono i loro vantaggi?
Essendo emessi dalla Ue, gli Stati membri beneficiano di un merito di credito elevato e quindi di bassi costi di finanziamento. In teoria quindi un Eurobond avrebbe le caratteristiche per qualificarsi come un «safe asset»: un asset sicuro di riferimento europeo con capacità di spesa collettiva di tipo «federale» in grado di finanziarsi a condizioni più favorevoli rispetto alla somma dei costi sostenuti dai singoli Stati.
Quali gli svantaggi?
Molti hanno osservato come i loro rendimenti – in particolare a scadenze entro i 2 anni - presentino valori superiori a quelli dei titoli di Stato spagnoli, francesi e tedeschi. Questo non dovrebbe accadere, perché titoli di emittenti sicuri offrono rendimenti più contenuti e l’Ue ha rating AAA/AA superiore a quello degli Stati. Se, come è il caso, questo non accade, significa che il mercato sta «prezzando» altre componenti di rischio.
Sono in particolare tre i fattori che spiegano l’anomalia. Primo, i titoli sono poco liquidi con scambi esigui. Secondo, le emissioni Ngeu termineranno nel 2026 e non si sa cosa succederà dopo. Ma soprattutto, terzo, l’assenza di un’unione fiscale: l’Ue non ha un bilancio comune e il rischio temuto da alcuni (tedeschi in primis) è che gli Eurobond potrebbero trasferire sugli Stati più virtuosi i debiti pubblici di quelli in difficoltà.
Da Draghi è giunta una richiesta verso gli Eurobond?
Nel suo rapporto ha parlato di «common safe asset», con riferimento alla connotazione «safe», che consente di assicurarsi contro shock non diversificabili, e «common». È evidente il riferimento agli Eurobond. Va però creato un mercato organizzato comune garantendo meccanismi di liquidità efficaci. Ma soprattutto, ed è questo è il vero auspicio di Draghi, va creata una unione fiscale di tipo federale finalizzata a finanziare investimenti in settori fondamentali come energia, industria, digitale, difesa, nuove tecnologie.
Che benefici potrebbero apportare agli Stati membri?
L’emissione di strumenti di debito comuni potrebbe catalizzare capitali privati consentendo il finanziamento di progetti di investimento congiunti altrimenti irrealizzabili. È però necessario attivare collaborazioni pubblico-private aumentando gli investimenti in scienza, innovazione e tecnologia. Come farlo? Il rapporto di Draghi indica le questioni chiave e come affrontarle.
Perché ci sono Paesi, i cosiddetti falchi, contrari?
Lo scetticismo si lega alla solidarietà fiscale tra Stati. Si teme che vadano a finanziare sussidi e spesa pubblica non produttiva di Paesi meno virtuosi. La questione è complicata, perché vanno anche affrontati i temi connessi al sistema delle garanzie e all’introduzione di meccanismi che impegnino i Paesi maggiormente esposti a ridurre il proprio indebitamento.
Cosa pensa della reazione di von der Leyen alla richiesta avanzata da Draghi?
L’analisi di Draghi è stata oggettiva, tecnica, ed eseguita con metodo scientifico. Ursula von der Leyen ha un ruolo ben diverso. È presidente della Commissione e, come tale, deve assicurare coerenza, efficacia e collegialità delle azioni intraprese dall’istituzione. In tal senso valuto positivamente la sua reazione sui risultati del rapporto, i quali, ha affermato, «continueranno a ispirare il nostro lavoro per i mesi e gli anni a venire». Ora andrà studiato, discusso e collegialmente trasformato in proposte politiche.
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